Italia chiama Belgio: parola ai birrai
È innegabile che molti degli appassionati di lunga data abbiano cominciato ad avvicinarsi al mondo della birra di qualità bevendo nei pub quelle che alla fine degli anni ‘90 erano le birre di importazione più affascinanti e intriganti, ovvero le birre del Belgio. Da allora il mondo della birra si è lentamente ma inesorabilmente evoluto verso il craft più spinto, rompendo gli schemi classici per proporre inedite fragranze luppolate sulla quasi totalità degli stili noti, rilanciando splendidamente un intero comparto. In Belgio, però, i ritmi sono stati sicuramente più blandi e ci si chiede spesso se una timida rivoluzione ci sia effettivamente già stata o se queste avvisaglie siano soltanto un preambolo di un maggiore ritorno di appeal sui classici della loro tradizione.
Anche durante la recente edizione del Villaggio della Birra, storica kermesse toscana che ci vede quasi gemellati, è apparso molto evidente come la strada della tradizione belga e della contemporaneità italiana abbiano molti punti di incontro ma anche diversissime proiezioni verso il futuro. Pochi sono gli attori che cercano di ergersi dal tessuto produttivo belga, spesso connesso con il territorio e i consumatori locali, per diffondere le proprie birre oltre i confini nazionali. Talvolta sfruttano un’aura mistica costruitasi in anni di misteriosa e affascinante sregolatezza produttiva, come vale per Fantôme, mentre altre volte le vette qualitative raggiunte proiettano geni birrari come Kris Herteleer di De Dolle verso una posizione dominante rispetto a tutti gli altri. Ma con essi vagamente si intravede un luccichio di modernità: pochissimi sono i birrifici a conduzione familiare che provano a lanciarsi in avventure produttive e comunicative contemporanee, prediligendo un approccio più pragmatico che spettacolare. Nonostante sembri tutto fermo o quasi, nel mondo birrario belga i movimenti e i cambiamenti sono lenti ma inesorabili e si muovono come denso magma sotto una crosta dura e immutevole. Abbiamo provato allora a registrare le dirette parole di birrai belgi e di raccogliere le impressioni di produttori italiani che più sono vigili su questo tipo di produzioni, cercando di tratteggiare un quadro della situazione.
L’incipit del cambiamento può essere sicuramente fatto risalire alle audaci produzioni di Brouwerij De Ranke, sfornate nei primi anni ‘90 da Nino Bacelle e dal socio Guido Devos che davano una prima sferzata all’ambiente. Innovativa e sorprendente fu la loro XX Bitter, una blond amara d’altri tempi secondo la loro filosofia personale, come spiega Bacelle: “Certamente il ruolo del lievito sulle nostre birre fu essenziale da subito, ma il focus fu prevalentemente sul luppolo. Già molto amara all’epoca, ora conserva quel carattere nonostante non ne abbiamo mai cambiato le quantità di luppolatura: fu ideata dal mio socio Guido e nacque con l’intento di capire quanto in là nell’amaro potessimo spingerci conservando la piacevolezza finale. Fu un successo fin dal primo giorno per il bilanciamento tra il luppolo Brewers Gold in amaro e l’Hallertau Mittelfrüh in aroma: il suo segreto è nell’uso dei coni e siamo tuttora molto soddisfatti del risultato che continuiamo ad avere. Penso la XX Bitter sia diventata iconica perché era l’unica birra in Belgio con un amaro così importante ma con un grande equilibrio: parliamo di 60/65 IBU teorici in una blond di soli 6% alc. Per i nostri bevitori ebbe lo stesso effetto delle prime IPA sugli americani”.
L’effetto domino che però ha innescato la Renaissance americana in Belgio non c’è mai stato, e così la XX Bitter è rimasta a lungo l’unica birra amara e ben luppolata prodotta tra i propri confini. Comprensibile, per un Paese dalla forte tradizione, ma anche strano considerando l’enorme potenziale che questo vantaggio avrebbe creato tra i confini europei, che quasi tre decadi fa non erano ancora particolarmente sfiorati dal fenomeno craft.
Molti anni dopo è stato un appassionato e cultore della tradizione birraria, Yvan De Baets, a raccogliere questo testimone, dapprima producendo come beer firm proprio da De Ranke, per poi inaugurare nel 2010 Brasserie De La Senne insieme a Bernard Leboucq. Nonostante i tempi fossero maturi da un po’, si trovava ad essere solamente il secondo birrificio dell’area di Bruxelles in attività (l’altro era il mai domo Cantillon), fatto assai curioso per una capitale della birra europea. Così De Baets ricorda gli inizi: “Ho cominciato a produrre birre amare e luppolate perché piacevano a me e non riuscivo a trovare più nessuna di queste birre in Belgio. Fu un atto spontaneo, non particolarmente scatenato dall’avanzata del craft che si stava prospettando: fu una mia visione, quella che ogni birraio dovrebbe avere prima di avviare un progetto. Nei primi anni Taras Boulba e Zinnebir erano difficili da vendere: la reazione era sempre di incomprensione verso l’amaro e mi suggerivano di produrre birre di tipo opposto, tendenzialmente dolci. In realtà per me era un ritorno alle origini: non volevo fare una birra che fosse solo moderna, ma volevo che avesse quel gusto particolarmente luppolato come le vecchie blond belghe. Nelle mie birre il luppolo gioca un ruolo primario, ma lo fa anche il lievito. Credo che in futuro questo sarà sempre più preponderante, perché il suo potenziale è ancora enorme e abbiamo appena iniziato a comprenderlo. Non credo che il futuro della birra belga sia piegarsi a stupide Pastry Stout o noiose NEIPA, perché i consumatori belgi sono tradizionalisti, il che è un bene. Certamente alcuni birrifici potrebbero lavorare meglio, ma credo che le belghe torneranno ad essere apprezzate per una delle loro doti principali, ovvero l’equilibrio”.
Forse sono stati proprio l’equilibrio e l’eleganza organolettica ad aver stimolato la produzione di birre di stampo belga anche in Italia, già dai primi anni di partenza del movimento. Tra quelli che per primi hanno occupato questo filone ci fu Maltus Faber di Massimo Versaci e Fausto Marenco, il quale confessa le difficoltà degli albori: “non fu facile, ma il passato in un’azienda del settore caseario come responsabile dell’assicurazione qualità mi ha aiutato molto e ho messo a frutto in ambito birrario quella mia esperienza di laboratorio. Per anni mi sono gestito personalmente i ceppi di lievito utilizzati per fermentare e nel tempo ho sviluppato una buona conoscenza in questo ambito. I due terzi delle nostre vendite sono tuttora costituiti da birre prodotte di scuola belga”.
La natura dei lieviti belgi, che spazia nell’universo fruttato e non solo, crea scenari e intersezioni decisamente interessanti con il luppolo.
Lo sa bene Extraomnes, il cui istrionico birraio Luigi D’Amelio non ha mai fatto mistero del suo debole: Le birre belghe tradizionali si trovano facilmente e a prezzi abbordabili, per cui qualcuno potrebbe chiedersi che senso ha bere birre italiane ispirate a questi stili quando si ha la possibilità di comprare i classici a prezzi inferiori. Questo è un momento in cui le belghe sono un pochino indietro rispetto alle moderne mode per lager e luppolate, purtroppo. Personalmente credo di essere riuscito a indovinare il momento in cui è arrivata quella sorta di new wave luppolata belga, quella fase in cui si intuiva che il Belgio che avrebbe avuto successo internazionale non sarebbe più stato quello dei birrifici storici o d’abbazia noti per alcol e dolcezza, ma quello di De La Senne, La Rulles, delle birre di De Glazen Toren, che non è il nuovo Belgio ma un’interpretazione più aderente al gusto del consumatore che chiede birre più secche e più facile da bere.
Personalmente vado orgoglioso per aver partorito la Zest, una birra unica nel suo genere, uguale solo a sé stessa, che per un momento è sembrata dare vita a un nuovo modo di usare il luppolo su una birra. Noi italiani abbiamo capito meglio i punti di forza prima che lo capissero i belgi stessi. Abbiamo prodotto tripel più secche e amare, mantenendo la cifra dei lieviti, saison caratterizzate dalla bevibilità, anche con ingredienti del territorio come era il Belgio agli inizi degli stili saison, ovvero quello in cui si utilizzavano le materie prime che c’erano a disposizione e si dava così una certa caratterizzazione. In Italia abbiamo una gamma così ampia di ingredienti e fantasia che anche nelle saison sembra esserci quasi una marcia in più.
Ma inondare di luppolo, giocare d’aggressività e di sponda con i lieviti non è forse l’unica via. Le birre del siciliano Yblon, per esempio, passano per essere probabilmente quanto di più vicino alla scuola belga ci possa essere sul nostro territorio e il birraio Marco Gianino lo fa con i guanti: “Tutti gli stili classici meritano rispetto. Il loro equilibrio è stato costruito e perfezionato negli anni e difficilmente le birre moderne potranno arrivare agli stessi livelli. Personalmente ho lavorato sull’inclusione di varietà di luppolo moderne su stili classici, ma usati sempre con parsimonia, facendo in modo che non diventino mai protagonisti ma che diano il loro contributo nel rispetto dei canoni dello stile. Per far affermare questo tipo di birre in futuro credo ci si debba concentrare sulla gestione di un unico ceppo di lievito, possibilmente personalizzato, perché sia un segno distintivo del birrificio.”
Lentamente il fronte dei birrifici belgi che vogliono occupare un posto di rilievo nel panorama mondiale sembra fare la corte al di là dell’Atlantico, dove il fascino del Belgio birrario giace talvolta immutato da decenni, complici distanza e ammirazione incondizionata. Non è raro che nascano edizioni limitate di birre esportate solo in USA o Brasile, come sta avvenendo per varie produzioni di Fantôme o per gli inlattinamenti della Saison d’Erpe-Mere di De Glazen Toren. Forse una delle più riuscite innovazioni è avvenuta proprio con un crossover belga-americano, La Vermontoise, nata nel 2013 dall’incontro tra Brasserie de Blaugies con Hill Farmstead, enfant prodige delle novelle NEIPA americane. I coniugi Pierre-Alex e Marie-Noëlle ne parlano come fosse ieri: La Vermontoise è figlia di una collaborazione con Shaun Hill di Hill Farmstead Brewery: siamo amici e durante una festa organizzata dal nostro importatore americano, abbiamo deciso di produrre una birra insieme sulla base della Saison d’Epeautre, realizzata con farro. Shaun era entusiasta ed è venuto fino in Belgio per produrre la birra sul nostro impianto con noi. Abbiamo solo cambiato il luppolo e usato l’americano Amarillo: è riconoscibile per le sue note intense, floreali e citriche. Dà alla birra anche un po’ più di amaro senza diventare una IPA. Il nome è stato facile da trovare: viviamo a Mons e le abitanti della città si chiamano “montoise”, mentre Shaun è del Vermont.
La delicatezza intima, a tratti tenera, con cui i birrai belgi si avvicinano al mondo del luppolo e della modernità ne fa quasi il loro tratto distintivo, distante dal marasma di nuove varietà di cui a volte ci si stanca un po’ troppo velocemente. È molto bello, per esempio. sentire raccontare dalle parole di Francesco Mancini, birraio del Birrificio del Forte, l’esperienza avuta nella realizzazione della Saison del Villaggio: Amo il mondo della birra belga fin da quando ero solo un appassionato e mi sono sempre confrontato con questo mondo. In occasione della cotta pubblica al Villaggio della Birra ho avuto il piacere di conoscere Laurent Agache di Brasserie de Cazeau, che un anno portò con sé anche il suo impianto da homebrewer per fare birra insieme a noi. Una birra che l’anno dopo assaggiammo insieme e che ci legò molto. Quando poi il neonato Birrificio del Forte fu invitato come ospite al Villaggio, ci risentimmo per fare una birra collaborativa sul nostro impianto e fu bellissimo: realizzammo nel 2015 una saison che partiva dalla mitica Saison de Cazeau con fiori di sambuco, rivisitata sul grado alcolico e sulla luppolatura. La storia andò avanti anche l’anno dopo, quando andai io da lui a farla e poi divenne stabile nelle nostre birre celebrative.
Una cosa è certa: nessuno ha compreso con molta chiarezza la direzione che la birra belga vuol prendere nei prossimi anni. I luppoli sono una forte tentazione che non tutti sanno gestire, il legame con il mondo delle abbazie forse si è dissoluto abbastanza, le innovazioni arrivano un po’ con il contagocce e lo strapotere crescente della fascia spontanea stringono nell’angolo tutto il resto. Ma per certi versi bere belga tradizionale ci fa atterrare in quella confort zone di cui a volte si ha bisogno per riappacificarsi con un’idea di birra sostenibile, umana e romantica, non necessariamente desiderosa di cambiamento.