Come servire una birra

Il servizio della birra rappresenta uno di quei casi in cui l’espressione “la forma è sostanza” assume un’evidenza tangibile. Come per il vino, anche per la nostra bevanda vale la regola per cui, se si vuole godere appieno delle sue virtù, non ci si può sottrarre all’obbligo di seguire le corrette pratiche di preparazione al consumo. Perché non è davvero impossibile (anzi, spesso ci si riesce con una certa facilità) maltrattare una birra fino a metterla in condizione tale da non poter far valere per intero il proprio potenziale.

Si definisce mescita la manovra (con l’insieme di operazioni in cui si sviluppa) attraverso la quale si procede a versare la birra in un bicchiere. Chiameremo di seguito semplicemente mescita la tecnica riguardante il caso in cui il recipiente di provenienza sia una bottiglia; mentre utilizzeremo il più specifico termine di “spillatura” relativamente al servizio effettuato da un impianto alla spina (a fusto o a pompa) o da una botticella (a caduta). In tutti i casi, comunque, l’obiettivo che ci si pone è il medesimo: regolare al meglio – attraverso l’energia dell’impatto del flusso di liquido contro la parete interna del bicchiere – la quantità di gas contenuto nella bevanda servita, determinando la porzione destinata a restare disciolta nel liquido stesso e quella invece che ne verrà espulsa gorgogliando e condensandosi in schiuma. Tutto ciò è funzionale a due ragioni: la prima è quella di provvedere appunto alla formazione di quella schiuma, propria della birra servita, indispensabile per una degustazione corretta tesa ad esaltare le caratteristiche della birra; la seconda è quella di liberare simultaneamente la birra dalla carbonazione che sarebbe altrimenti in eccesso al momento della deglutizione. Una parte rilevante del gas che troviamo disciolto nella birra all’atto del servizio è infatti in eccesso, supera cioè la quantità pensata e voluta dal mastro birraio al momento del servizio.

Prescindendo da alcune eccezioni, perché è così importante generare un adeguato cappello di schiuma? Per un paio di rilevanti ragioni. La prima risiede nel fatto che quel “cappello” rappresenta il naturale presidio destinato a proteggere la birra dai rapidi fenomeni d’ossidazione che si attivano a contatto con l’aria. Per questo risulta decisiva la formazione della schiuma e la sua copiosità costituisce non solo e non tanto un elemento di iconografia birraria, quanto anche una presenza tecnicamente cruciale. Seconda ragione è che il processo di graduale liberazione del gas favorisce una regolare e “razionata” convezione verso l’alto (verso il nostro naso, insomma) degli aromi, i quali tendono a sprigionarsi massicciamente e in minor tempo in assenza di schiuma, se la temperatura esterna è alta; oppure a restare appiattiti e inespressi, mancando loro il naturale “ascensore”, se l’ambiente è freddo. In sostanza, un buon strato di schiuma garantisce una migliore conservazione della capacità gustolfattiva della birra nel tempo che impieghiamo per berla.

D’altra parte la saturazione della birra è una misura decisiva in ordine all’obiettivo di garantirne la miglior sopravvivenza dopo il confezionamento, un risultato che si raggiunge attraverso modalità diverse: dalla carbonazione forzata (ovvero l’insufflazione artificiale di anidride carbonica alimentare nei serbatoi o in tubazioni di ricircolo); alle rifermentazioni (aggiungendo zucchero e lieviti), innescate direttamente in bottiglia oppure in tino (per poi confezionare con l’uso di imbottigliatrici o infustatrici a tecnologia isobarica).

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