Imperial Stout: c’è differenza tra la versione inglese e americana?
Corsi e ricorsi storici. O anche: Quando una tradizione viene eclissata dai propri sviluppi moderni e contemporanei. Di titoli possibili ce ne sarebbero tanti da apporre al racconto che stiamo per tracciare, quello delle Imperial Stout, una tipologia dalla genesi britannica, ma percepita oggi come stile di adozione statunitense. Il tanto che basta da indurre una quota significativa del mercato a guardare, parlando di modelli di riferimento ed esperienze emblematiche, soprattutto appunto alla sponda oltreatlanica piuttosto che alle bianche scogliere di Dover.
Del resto non si tratta di una novità. Alle India Pale Ale originarie, battenti bandiera dell’Union Jack, è successo lo stesso: sparso il loro seme sulle terre dello Zio Sam, hanno dato luogo a una filiazione a stelle e strisce, dalla cui popolarità hanno finito per essere oscurate non diremo del tutto, ma quasi. Eppure, in questo caso, c’è almeno l’ancora di salvezza (seppure spesso ignorata dal consumatore) di una distinzione nelle denominazioni: Ipa e American Ipa. Le Imperial Stout invece no: non hanno conosciuto, finora almeno, la messa in elenco di una versione formalmente designata come statunitense, e dunque l’equivoco è forse meno palese, perciò più sottile, ma, proprio per questo, ancor più insidioso.
Il punto di scaturigine del tutto è da collocare alla fine degli Settanta del Novecento, fase cruciale del primo manifestarsi di quella che poi sarebbe esplosa come Rivoluzione Craft. I suoi pionieri guardavano a modelli stilistici classici, con curiosità e insieme spirito d’innovazione. Uno tra i passaggi segnanti di quella fase è l’accordo tra la compagnia d’importazione Merchant du vin (fondata nel 1978 a Seattle da Charles Finkel, che poi avrebbe costituito anche altre attività operanti nel medesimo settore) e la brewery inglese Samuel Smith, per la distribuzione negli Usa di varie etichette della scuderia di Tadcaster, tra le quali appunto la rinomata Imperial Stout. Ebbene, si dice (seppure la circostanza non trova conferme ufficiali) che la proprietà del marchio britannico stesse meditando addirittura sul ritiro, dal proprio catalogo, di questa sua storica creatura, evidentemente in debito d’ossigeno sul piano delle vendite; e che a dare nuova linfa alla sua circolazione (dunque alla sua stessa permanenza in vita) sia stato appunto il contratto firmato con il trader americano.
Se le cose siano andate esattamente così non è dato sapere, certo è che Samuel Smith in persona (il quinto della propria genealogia, tuttora al timone dell’impresa avviata nel 1758 dal suo antenato e omonimo) si esprimeva, nel 2016, in termini tali da lasciar intendere il senso, se non di una vera e propria riconoscenza verso i cugini d’oltre oceano, almeno di una serena accettazione del corso delle cose: Abbiamo – queste le sue parole – dato loro gli archetipi cui ispirarsi, per produrre buone birre; e adesso siamo noi, in Gran Bretagna, a ricevere la loro influenza.
Ma, tornando al presente, la Imperial Russian Stout è davvero considerabile una tipologia a metà tra due appartenenze territoriali? A nostro avviso no. Le versioni americane rappresentano una evoluzione della tipologia: per accrescimento del grado alcolico, per aver spostato più in alto l’asticella del livello di amaro, e aver enfatizzato le note torrefatte. In pratica una versione american maggiorata, o estremizzata se volete, rispetto alla versione english. Eppure l’edizione attualmente in circolazione, la 2015, delle Styles Guidelines firmate dal Bjcp (Beer Judge Certification Program) dimenticandosi la storia delle IRS, le inserisce all’interno della categoria delle American Porter and Stout, comprendente birre introdotte come derivazioni (più intense e focalizzate sul luppolo) di versioni primigenie native del Regno Unito. In particolare, a proposito appunto della IRS, il testo specifica come sebbene si tratti di una ricette tradizionalmente inglese, oggi tuttavia la sua diffusione e la sua reperibilità è decisamente maggiore negli Stati Uniti, nei quali rappresenta una delle espressioni più apprezzate del movimento artigianale e non certo una semplice curiosità. Quanto alla plausibilità di istituzionalizzare due distinte versioni, una britannica e una americana, il Bjcp argomenta come, per quanto, nell’una e nell’altra interpretazione, alcune peculiarità ricorrenti ci siano, ciò non suffraga l’ipotesi di poter disgiungere chiaramente un profilo Yankee da uno UK.
Fatto sta che, al momento, se c’è un laboratorio di sperimentazione per cui davvero si possa spendere una simile definizione, anche in tema di Imperial Stout, ebbene, non può non essere identificato con gli Stati Uniti, dal quale provengono tutte le più trendy, e talvolta bizzarre, declinazioni di quel canovaccio di base. Su tutte le possenti Pastry Stout, specie nelle esecuzioni più ardite, con marshmallows e altri ingredienti di vera e propria pasticceria.