Hall of Fame. Capitolo V. La Thrale’s Imperial Stout
Oggi – molti di noi essendo contagiati da una (spesso anche plausibile) smania classificatoria – la chiameremmo Robust Porter: al tempo nessuno si preoccupò troppo di dover ufficializzarne una denominazione in cui l’aggettivo preliminare definisse il sottostile. Ci si limitò a berla: in lungo e in largo per il mondo. Era la mamma delle Imperial Russian Stout: anzi, era la prima IRS, ante litteram. L’epoca? L’ultimo quarto del diciottesimo secolo. Lo scenario? Quello della Londra di allora, con il suo vivace dinamismo industriale, anche sul fronte brassicolo. Il protagonista? Henry Thrale (1724-1781), che aveva ereditato dal padre la Anchor Brewery, nel quartiere di Southwark, affacciato sul Tamigi nella parte sud della città. Qui, appunto negli anni di cui si è detto, elaborò la ricetta di una Porter assai strutturata (si vocifera di 9 gradi alcolici) e arricchita con uno sproposito di luppolo (leggende parlano di circa 9 libbre al barile).
Per la precisione il suo nome era Thrale’s Entire (anzi Intire, secondo la grafia alternativa del tempo): aveva insomma scelto l’appellativo tipologico con cui le Porter stesse avevano debuttato (un mezzo secolo prima); un appellativo che ancora affiancava quello destinato alla fine a diventare il nickname definitivo. Comunque sia, quel che conta era la muscolatura del prodotto, opportunamente carrozzato per qualsiasi spedizione; tanto attraverso i rigori delle rotte baltiche, quanto sotto la minaccia delle torride calure proprie delle latitudini lungo le quali si doveva transitare per raggiungere i contingenti di Sua Maestà impegnati nelle imprese coloniali in Sierra Leone e in Bengala. Perché questo, appunto, era il raggio d’azione della Thrale’s Intire. E a tale proposito, proprio alla luce di tale difformità nelle destinazioni commerciali, alcuni cultori della storia birraria arrivano a mettere in dubbio che la genesi della Imperial Stout sia necessariamente quella riferita dalla ricostruzione tradizionale; ovvero legata alla necessità di abbassare il punto di congelamento del liquido, a fronte del rischio collegato alle polari temperature dei tragitti verso i porti di sbarco zaristi sulle coste delle attuali repubbliche di Lettonia, Estonia e Lituania.
Piuttosto, l’ipotesi è che quella Porter fosse nata così vigorosa per una semplice (geniale) intuizione imprenditoriale; che avesse fatto centro sui mercati interno ed estero; e che fosse stata (tra l’altro) adottata quale drink prediletto anche da Caterina II, detta La Grande (1729-1796), con tutta la corte al seguito. Magari (questo sì), rivelandosi – proprio grazie alla sta stazza etilica – più adatta, rispetto a eventuali successive concorrenti, nel fronteggiare i rischi di quel viaggio verso est; un viaggio nell’arco del quale (forse) altre Porter, mosse da velleità di penetrare a loro volta il goloso mercato russo, poterono imbattersi nell’inconveniente drammatico dell’esplosione (per effetto del congelamento, appunto) dei recipienti di confezionamento.
Certa è la storia successiva della birra e del marchio, entrambi rilevati nel 1781 da Barclay & Perkins: il cui brand – dopo aver formalizzato l’adozione, per quella ricetta (o comunque per la sua ulteriore evoluzione), della definizione di Imperial Russian Stout – venne a fondersi, due secoli dopo (era il 1955) con i dirimpettai della Courage: e sotto tali insegne l’erede di quella Irs primigenia ha continuato a essere prodotta fino al 1993.