American Pastry Stout: le scure da dessert
Immaginiamo di avere una macchina del tempo: tornare a cinquant’anni fa e provare a dire in giro che, un giorno, tutta una serie di birre sarà identificata da aromi e sapori capaci di riportare alla mente ricchi piatti di pancake, lussuriose torte al cocco, esuberanti gelati al cioccolato fondente. Dopo aver magari suscitato un vago interesse iniziale, addentrandoci in dettagli e descrizioni verremmo presi per pazzi, evocando una scena simile a quella in cui Marty Mc Fly in “Ritorno al Futuro”, dopo aver terminato la sua scatenata esecuzione di Johnny B. Goode, con tanto di assolo improvvisato e calcio all’amplificatore, si ritrova, aprendo gli occhi, il pubblico esterrefatto e quasi spaventato che resta ammutolito a guardarlo. Probabilmente avremmo la stessa reazione di Marty e, mezzi imbarazzati, ce ne usciremmo con la mitica frase: “Penso che ancora non siete pronti per questa musica… ma ai vostri figli piacerà!”. Ora, prospettare l’avvento dell’hard rock e preconizzare il successo delle pastry stout non sarà esattamente la stessa cosa, ma, ingombrante o no, chiacchierata o no, di sicuro stiamo parlando di una corrente che parte da lontano e non apparsa di punto in bianco.
La domanda che molti si fanno (immaginiamola pronunciata da una voce vibrante, con un solenne sottofondo audio da climax di film drammatico) è dunque: come siamo arrivati a tutto questo? Il vostro geek di quartiere preferito tenterà di dare una spiegazione. Le basi del fenomeno penso che siano facili da comprendere, e personalmente le intendo come normale evoluzione del fare birra, o meglio, di alcuni stili. Grazie alle varietà di malti in esse impiegate, stout e porter sviluppano naturalmente note di cioccolato e caffè. Arrivati a un certo momento storico, è giocoforza che qualcuno debba aver avuto l’idea di poter aggiungere i suddetti ingredienti ad una ricetta. Non c’è molta letteratura in giro per il web, ma l’opinione comune concorda che il primo birrificio contemporaneo ad aver realizzato una coffee stout sia New Glarus (Wisconsin) a metà degli anni ’90. A dispetto di un ottimo successo, l’ATF – la lobby che in America regolamenta alcool, tabacco, armi ed esplosivi – ne bloccò la produzione perché, all’epoca, le coffee beer erano commercialmente irregolari dato il contenuto di caffeina.
Io me la ricordo, la prima birra del genere mai assaggiata. Era il 2009: io e il mio più caro amico gioivamo tutti esaltati per l’acquisto della Young Chocolate Stout, che oggi è possibile trovare anche in qualche catena della grande distribuzione. Va detto che anche allora, come adesso, si parlava di un birrificio dal livello produttivo abbastanza modesto. Non eravamo nuovi a sentori che richiamassero il cioccolato: in diverse dubbel e quadrupel ci era capitato di riscontrarli, ma si trattava di una ramificazione del loro ampio spettro organolettico; nella Young vi era piuttosto una predominanza totale e netta, che suonava artificiosa sebbene non artificiale. Tutto sommato a me piacque molto. Quando ne parlavo a qualcuno la descrivevo banalmente come “cioccolata liquida”. Coincidenza volle che in quel periodo, in Italia, cominciassero a comparire alcune birre al caffè. Era addirittura possibile reperire la migliore in assoluto, ovvero la Alesmith Speedway Stout: una muscolare RIS con una robusta aggiunta di caffè della torrefazione Ryan Bros di San Diego. Ma un’altra in particolare, sempre disponibile in quel di Roma al 4:20, aveva segnato, secondo me e molti, la fama mondiale di un nome ben noto. Una RIS nemmeno tanto alta di gradazione, ideata e progettata da un insegnante di matematica e fisica al liceo con l’hobby dell’homebrewing e perfezionata da un birraio americano giramondo cresciuto a Philadelphia: esatto, parliamo della Mikkeller Beer Geek Breakfast. La particolarità era l’utilizzo del caffè più pregiato al mondo (“gourmet coffee”, come riportato in etichetta), il Kopi Loewak, ottenuto dalle bacche lavorate e processate dalla digestione di un curioso felino del sud est asiatico: lo zibetto delle palme. Stupiva la commistione tra gli ingredienti, una specie di matrimonio profondo tra un orzo e un espresso, entrambi di qualità. Era un prodotto eccellente, di grandissimo livello per i tempi, e lo sarebbe ancora adesso. Se dovessimo scegliere una birra che, in Europa, ha rotto gli indugi sulle coffee stout, sarebbe senz’altro quella.
Ma in America erano già avanti, e i birrai si spingevano ben oltre il semplice caffè. Resto ancorato alle memorie di quegli anni, e rammento una serie di birre che forse meriterebbero, a mio avviso, di essere considerate le vere antesignane delle pastry stout. Southern Tier, localizzato nello stato di New York (fresco di una joint venture con Victory Brewing nel 2016), catturò l’interesse del popolo geek per la sua Blackwater Series, una linea di imperial stout piuttosto estrose: la Oat (con avena), la Jahva (con caffè), la Choklat (con cioccolato), ma soprattutto la Creme Brulée. Bottiglie serigrafate con etichette accattivanti, ciascuna delle quali richiamava il tema principale del gusto ricercato: una cavezza, una moka, una tavoletta di cioccolata e, nel caso della Creme Brulée, una mucca. Quest’ultima, secondo l’idea del birrificio, aveva il compito di richiamare i sapori di una crema catalana. Quando la assaggiammo, ammetto che ci venne un po’ da ridere. Per lo stupore, per la meraviglia, ma anche per avere nel bicchiere qualcosa che trascendesse il concetto di birra, nel bene e nel male. Tostati, caramello, vaniglia, era una combinazione sullo stucchevole andante, tipo che mezza pinta la finivi in mezz’ora circa. La prendemmo con ironia, in fondo: per chi avesse voluto provare una birra strana, a fine serata, poteva essere un’esperienza divertente. E magari a qualcuno sarebbe potuta anche piacere, perché no? Altri non furono dello stesso avviso, e la Creme Brulée fu non solo derubricata alla voce “cazzata galattica”, ma considerata roba da gente incapace di riconoscere e/o apprezzare la Vera Birra (ho visto scriverlo davvero con le maiuscole in certe discussioni, per distinguerla dalla Falsa Birra).
Cambiando costa, in Oregon nacque (circa nello stesso arco di tempo) la Voodoo Series di Rogue, una linea dedicata all’omonimo brand di donuts originario di Portland: il progetto si ispirava alle famigerate ciambelle con assurde combinazioni di gusti assortiti: banana e burro d’arachidi, meringata al limone, pretzel ai lamponi e via discorrendo. Nelle Rogue ciò viene raggiunto tramite una miscela di aromi naturali, per semplificare il processo e aderire al flavor astruso di turno. È logicamente un’aberrazione, ma racchiude una sua logica: ricreare un’immagine sensoriale legata ad un prodotto dolciario.
La chiave di lettura delle pastry stout è allora proprio questa: infondere nel bevitore un richiamo voluto a sapori già noti, non di materie prime bensì di prodotti elaborati, raffinati, come torte, gelati, snack. In tanti intendono il processo come uno svilimento del gusto birrario su scala commerciale, accompagnat0 alla sensazione di far codificare al cliente una merendina piuttosto una birra in sé per sé; nella fattispecie, poi, la critica condanna l’impiego di espedienti di stampo artificiale per ricreare l’effetto copia. Il bersaglio principe è di solito Omnipollo, massimo esponente della categoria con le sue varie Anagram (blueberry cheesecake stout), Yellow Belly (peanut butter biscuit stout), Gideon’s Pancake Stack (maple chocolate pancake stout) e via discorrendo. Al di là delle infinite e sterili diatribe su quanto le sue birre facciano bene o no al mercato, è indubbio che talune (non tutte) presentino un profilo organolettico concettuale più che brassicolo, e il loro impatto ai sensi suona come il frutto di un processo ottenuto in un laboratorio di chimica. Ciò non toglie che possano piacere a qualcuno comunque, ma alle volte pare che per capire di birra non sia una credenziale permessa. Da parte mia cerco di vederla con un’apertura mentale maggiore, e considero il termine pastry stout improprio, casomai dovuto a un’estremizzazione nell’adottare ingredienti che – ne abbiamo parlato sopra – sono stati ormai sdoganati a dovere uno dopo l’altro con discreto successo: caffè, cioccolato, sciroppo d’acero, vaniglia, cocco, nocciola, persino la cannella e il peperoncino. Contenuti singolarmente, o in una combinazione tra essi, in birre di caratura elevatissima. Sarebbe più corretto, perciò, sfruttare un appellativo migliore: adjunct stout. Suona anche meglio, dato che pastry sa di impiastricciato, zuccherino, pasticciato, è un po’ la stessa faccenda che si era creata con le NE IPA quando chiunque le bollava con il fastidiosissimo aggettivo juicy (e per fortuna la consuetudine sta sparendo). Che le si ami o meno, queste birre oggi sono arrivate a guadagnarsi l’attenzione dei geek dell’intero universo. Molto furbescamente i birrifici ne annunciano le release in pompa magna, causando incredibili corse all’accaparramento, file interminabili il giorno della vendita, valutazioni ridicole per chi volesse procurarsele via trade o pagarle sul secondary market.
Si arriva ora alla domanda cruciale: ma sono davvero così buone? Vi rispondo con un “nì”. No, perché non sempre riescono. E se una adjunct stout non viene fatta a dovere, può restare apprezzabile ma stuferà dopo un sorso o due. Anche da parte di birrifici che nella norma io adoro quando si esprimono con questa tipologia, ad esempio Angry Chair e Cycle, ho ricevuto delusioni rispetto alle aspettative. Bicchieri lasciati a metà per via di sapori che rispecchiavano sì quanto riportato nella descrizione, ma che facevano uscire la birra sbilanciata, fuori asse, una singola nota suonata con insistenza senza la minima avvisaglia di un accordo. Sì, perché, se fosse solo una questione di gusto conferito dalle aggiunte, allora la strada dei flavors battuta da Omnipollo sarebbe di gran lunga la più semplice per ottenere il risultato migliore. E non è vero. La commistione tra gli ingredienti bisogna saperla dosare e gestire, conoscerne gli effetti e i difetti durante le fasi della cotta, senza contare la capacità di mantenere intatta la caratteristica primordiale e cioè: che sappia di birra, che si riconosca l’impronta di una stout solida e in grado di reggere le aggiunte, di non farsi sopraffare dall’esuberanza di un sapore. Mi vengono in mente due nomi che per me rappresentano il top assoluto: 3 Sons e The Answer, situati rispettivamente in Florida (presto a Danica Beach) e in Virginia (Richmond). Le loro adjunct stout sono superiori. Hanno la forza e i muscoli di un prodotto sì goloso, delizioso, ma da sorseggiare con debita calma per apprezzarne ogni sfumatura di complessità. Costruzioni massive, stratificate, segno di un lavoro ragionato e preciso. Impossibile non riconoscerle come birre d’eccezione, impossibile chiamarle pastry!