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Sour e Wild: cosa si intende e che differenze ci sono?

Un caleidoscopio in continua mutazione quello riguardante le fermentazioni designate come “spontanee” e “miste”. Per questo riteniamo sia opportuno  fare chiarezza sull’utilizzo di due termini molto usati come wild e sour.

Partiamo dalla suddivisione classica che come noto procede nell’individuazione delle tre cosiddette “grandi famiglie brassicole” alle quali si ricorre per fare ordine nel cosmo della birra. Tre macrocategorie generiche e dai confini labili, identificabili, in estrema sintesi, come segue: alta fermentazione, condotta da lieviti del genere Saccharomyces e della specie Cerevisiae, i quali operano in modo ottimale dai 13 °C in su, fino ai 25 e talvolta ben oltre (fino ai 40 gradi dei lieviti Kveik); bassa fermentazione, esercitata da lieviti del genere Saccharomyces e della specie Pastorianus, altrimenti detta Carlsbergensis, operanti in modo ottimale dai 7 ai 13 °C; e infine la fermentazione spontanea.

Fermentazione spontanea
A differenza delle altre due macrocategorie, per fermentazione spontanea non si fa riferimento al comportamento di una specie di lievito, ma al particolare metodo mediante il quale avviene l’inseminazione, appunto spontanea, di un mosto. Fondamentale è dunque la presenza di una vasca aperta (coolship) che permetta la contaminazione del mosto stesso da parte dei microorganismi popolanti un determinato micro-ecosistema (pensiamo all’iconografica vasca aperta di Cantillon con tanto di travi in legno, spifferi e ragnatele). Stiamo parlando di una tecnica impiegata nella preparazione dei Lambic belgi, in tutte le loro specifiche rifrazioni sotto-stilistiche: Gueuze, Faro, Kriek, Framboise, Druiven Lambic.

Fermentazione ibride
Con le fermentazioni ibride si introduce una quarta famiglia (locuzione plausibilmente utilizzata, estendendo lo schema tripartito cui si è appena fatto riferimento), la cui collocazione si stabilisce, come dire, in una zona di confine rispetto alle “latitudini” dell’alta e della bassa fermentazione. Stiamo parlando di una dinamica di trasformazione metabolica (del mosto in birra) per la quale ci si avvale di due precise opzioni. La prima prevede di inoculare lieviti “ad alta”, facendoli lavorare però a temperature assai prossime al limite minimo del ventaglio valoriale considerato ottimale per la loro riproduzione (è la tecnica che presiede alla preparazione di tipicità quali Kölsch e Altbier). La seconda, e speculare, opzione consiste nell’impiego di lieviti “a bassa”, ma condotti a temperature vicino e oltre il limite massimo dell’arco termico ottimale per la loro attività di propagazione (così accade, ad esempio, per le California Common).

Fermentazioni miste
La classificazione può poi essere allargata a una quinta famiglia, rappresentata dal ricorso sia a lieviti cosiddetti “convenzionali”, quanto a microrganismi “non convenzionali” (anche se il termine considerata la diffusione commerciale di questi ultimi risulta ormai obsoleto) .  In poche parole, si definisce mista una procedura fermentativa nel corso della quale s‘inoculino lieviti del genere Saccharomyces e parimenti s’inoculino, o comunque si facciano intervenire (ad esempio con una contaminazione in botte), microorganismi di altro genere, quali batteri lattici, pediococchi, batteri acetici, lieviti del genere Brettanomyces.

Merita precisare, visto il recente successo di questi lieviti, che nel caso dell’applicazione, in un regime non spontaneo, del ceppo Kveik, non si può parlare di fermentazioni miste. Da un punto di vista tassonomico questo fungo è assimilabile alla specie Saccharomyces Cerevisiae: un agente fermentativo che per natura e per caratteristiche di sottoprodotti creati, si può dire addomesticato e che dunque non può essere attratto dalla sfera del “non convenzionale”, ma piuttosto dal campo gravitazionale dell’alta fermentazione.

Nel recinto delle fermentazioni miste, la letteratura di genere opera poi un’interessante differenziazione in ordine alle tempistiche relative all’entrata in scena dei Saccharomyces, da un lato, e, dall’altro, dei batteri o dei Brettanomyces o di entrambi. Qualora l’attivazione avvenga in momenti diversi si parla, da parte di alcuni osservatori, di fermentazione “multipla” o “multifase” o “multistep”; qualora l’avvio del metabolismo avvenga, invece, in modo simultaneo, si ricorre a espressioni quali fermentazione “congiunta” o “sinergica” o “cooperativa” (nello specifico, se si tratta di deposizione intenzionale, ci si avvale dell’espressione “coinoculo”).

Un discrimine ulteriore riguarda le ripercussioni che una fermentazione mista può avere nel bicchiere, con effetti che possono essere sostanzialmente di due tipi. Il primo è quello in cui i microorganismi all’opera siano inclini, nell’ambito della propria attività metabolica, a generare acidi. Ad esempio significative dosi di acido lattico e citrico generate dai batteri protagonisti, che abbattono il pH a latitudini mediamente comprese fra quota 3 e quota 3.7, conferendo al risultato finale una connotazione inequivocabilmente “sour”, alla quale peraltro possono partecipare, in maniera secondaria, anche quantità di acido acetico prodotte dai lieviti cosiddetti selvaggi. In questo caso si dovrà applicare alla birra l’etichetta di Sour Beer o Sour Ale.

Nel caso invece in cui l’attività microbiotica, in special modo da parte dei menzionati Brettanomyces, dia il via libera allo sviluppo di composti quali fenoli, sostanze solforate e tetraidropiridine, che nel bicchiere si manifestano ricordando sensazioni animali di cuoio, cantina, stalla, sella di cavallo, pelle di salame, ma anche note medicinali, di solvente, di affumicato e termali. Questo bouquet che possiamo definire selvatico conferirà alla birra un profilo propriamente “wild”. Una fattispecie che darà vita a birre identificabili come Wild Beer o Wild Ale.

Merita ricordare anche un’altra casistica, anche perché nutrita di esempio, che individua una birra con caratteristiche sia di acidità, sia di sensazioni rustiche e selvatiche a livelli tali per cui la sua l’etichetta può, anzi deve, recare entrambi i termini, individuando così una Wild Sour Beer o una Wild Sour Ale.

Fermentazione spontanea vs fermentazione mista
Fatte queste opportune precisazioni circa le macrofamiglie, è bene ribadire la distinzione che vede, da un lato, la fermentazione spontanea, nella quale la “mano” che agisce è solo quella della natura, dell’ambiente e dei microorganismi presenti in quella porzione di biosfera; e, dal lato opposto, la fermentazione invece mista, nella quale ad agire è la mano dell’uomo, che inocula direttamente fermenti non convenzionali o batteri, che fa volutamente contaminare la birra con le popolazioni micro-organiche residenti in una botte o che ancora, ad esempio, inserisce frutta non trattata.

Lambic style, Spontaneum, Spontan, Coolship Beer

Come detto laddove si utilizza la tecnica della fermentazione “spontanea” (perciò la vasca di raffreddamento aperta con inseminazione naturale), si parla di Lambic, ma solo se si tratta di una produzione belga (il Lambic è una STP ovvero una Specialità territoriale garantita, in base a quanto stabilito dalle leggi dell’Unione Europea). E se il coolship è utilizzato altrove? Qualora il protocollo produttivo ricalchi quello della tradizione dei Lambic è necessario creare un neologismo, attorno al quale si è aperto un vero e proprio cantiere di “riflessione semantica”. Accanto al ricorso – estroso, estemporaneo e soggettivo – di forme perifrastiche quali Lambic-Style o Methode Lambicoise, in Italia, ad esempio, c’è un’interessante proposta volta a consolidare l’utilizzo del termine neutro latino Spontaneum, ipotesi che ha un precedente anglosassone nell’utilizzo del termine Spontan, reso famoso anche da Mikkeller. Ce anche chi suggerisce la validità della dicitura Coolship Beer, in effetti precisa e pregnante, anche se forse meno comunicativa rispetto ad altre soluzioni.

Wild e Sour
Una volta messi a fuoco i concetti wild e sour vediamo come questi vengono applicati al gruppo delle fermentazioni miste che incasella un non irrilevante gruppo di tipologie, alcune formalmente codificate (dai principali repertori di catalogazione stilistica), altre non ancora provviste di “pedigree”, ma ugualmente ben presenti alla percezione comune. Vediamone insieme il dettaglio.

Berliner Weisse, Gose e Lichtenhainer sono esempi tedeschi in cui il Cerevisiae convive con la presenza di batteri lattici, molto spesso oggi introdotti e propagati con la tecnica del kettle souring, che semplifica il processo di acidificazione limitandolo alla fase di ammostamento e inibendolo con la successiva bollitura. Poniamo però l’ipotesi in cui, oltre il trattamento iniziale del mosto con batteri lattici, si operino contaminazioni da altri microrganismi volontariamente inoculati o apportati (magari tramite frutta) o presenti in ambienti di fermentazione (e/o maturazione) non controllati o sanificati (pensiamo alle botti). Ebbene, in casi del genere, si sta affermando l’uso sempre più ricorrente all’aggiunta del termine Wild alla dicitura tipologica di partenza, avvalorato dal fatto che il naso presenta off-flavour tipici dell’espressione (sensazioni animali, cantina, etc..). Una versione più autentica e rustica di Gose prenderà il nome quindi di Wild Gose, e così vale anche per Wild Berliner Weisse o Wild Lichtenhainer.

Altro capitolo è quello delle Sour Ipa, nelle quali il mosto è in genere trattato con batteri lattici per poi essere sottoposto a una luppolatura (prevalentemente o esclusivamente in aroma) da American Ipa. Un modello che ha il proprio emisfero alternativo nelle Wild Ipa, nelle quali è ben visibile la firma nel profilo organolettico delle contaminazioni da parte di lieviti non convenzionali intenzionalmente inoculati o conferiti indirettamente (magari tramite frutta) o anche insediati in ambienti di fermentazione/maturazione non controllati o sanificati (quali botti e botticelle).

Cambiando ulteriormente pagina, tra Francia, Fiandra e Vallonia troviamo la culla delle Farmhouse Ale, che presentano un mosto fatto fermentare con lievito belga (spesso Saison, ad esempio) e microrganismi non convenzionali anche qui inoculati o di per sé presenti in recipienti di fermentazione o maturazione. Una definizione che in Italia, rispetto ad un vocabolario americano, fortunatamente è più restrittiva perché il termine Saison non è un sinonimo di Farmhouse Ale, ma utilizzato soltanto per le versioni modello Dupont per intenderci. Detto questo nonostante, una Farmhouse sia per definizione una Wild beer, nel caso in cui il risultato sensoriale sia spostato significativamente su note selvatiche, si sta facendo largo il ricorso alla dicitura di Wild Farmhouse Ale. Un utilizzo del termine che rimarca il legame tra l’etichetta Wild e le sensazioni rustiche rintracciabili nel bicchiere, e che aiuta molto il consumatore nell’intuire quale tipo di naso avrà la birra in questione. Restando in Belgio, rientrano nella fermentazione mista anche le acide delle Fiandre: le Flemish Red Ale, così come le Flemish Brown Ale, presentano un mosto fermentato con colture di Saccharomyces Cerevisiae comprendenti ceppi lattici e microrganismi non convenzionali.

Con l’etichetta Sour Beer, si individua una birra dal taglio sensoriale prevalentemente acido per via di una contaminazione di batteri con propensione acidificante e con un taglio olfattivo non marcatamente selvatico (nel caso in cui i livelli di acidità conseguiti siano contenuti si parla di Gently Sour Beer). Per certi versi speculari alle Sour Beer sono le Wild Beer. Nonostante per entrambe si parta da un mosto dove sono presenti microrganismi convenzionali e non, in questo caso la birra presenta un taglio sensoriale poco significativamente acido e prevalentemente selvatico, merito del lavoro di lieviti non tradizionali come bretta e affini. La fusione delle due anime rustiche da vita ad una Wild Sour Beer, che in virtù delle prerogative proprie degli stessi attori delle fermentazioni, si connota per un taglio sensoriale caratterizzato sia dalle acidità che dalle timbriche selvatiche.

Medesima logica (Sour/Wild/Wild Sour) può essere declinata su birre in cui si faccia uso di frutta. Ci riferiamo alle Sour Fruit Beer, il cui mosto viene trattato con una molteplicità di microrganismi, tradizionali e non, tra i quali possono trovare spazio batteri e lieviti (anche presenti nel biofilm che riveste la buccia degli stessi frutti utilizzati in ricetta), e che, proprio per le caratteristiche degli attori fermentativi, sarà caratterizzata da un taglio sensoriale prevalentemente acido e poco significativamente selvatico. Accanto ad esse troviamo le sorelle Wild Fruit Beer, il cui mosto viene parimenti trattato con una molteplicità di fermenti comprendenti, anche in questo caso, un mix di lieviti convenzionali o meno che possono provenire anche dalla biopellicola stanziata sulla buccia dei frutti utilizzati in produzione, e che daranno vita in virtù della loro natura a una birra dal taglio sensoriale poco significativamente acido e prevalentemente selvatico. In questo segmento, la fusione di queste due anime in una birra è etichettabile come Wild Sour Fruit Beer, che presenta all’unisono caratteristiche di acidità e timbriche selvatiche con la presenza di frutta in ricetta.

In Italia abbiamo poi il perimetro piuttosto battuto delle Italian Grape Ale, il cui canone, traslato nel territorio delle fermentazioni miste, può presentare diverse fattispecie come sempre ben fotografate dall’uso wild e sour. Partiamo dalle Sour Iga che presentano come attori della fermentazioni lieviti non convenzionali che possono essere anche residenti nel biofilm della buccia delle uve utilizzati in ricetta, che in lavoro congiunto con batteri, direttamente o indirettamente inoculati, caratterizzano la birra per un taglio sensoriale prevalentemente acido e poco significativamente wild. Accanto alle Sour Iga, abbiamo le Wild Iga: qui il mosto è aggredito da una quantità di fermenti che includono lieviti selvaggi direttamente o indirettamente inoculati. Tale incontro, in virtù delle inclinazioni specifiche di quei fermenti, dà luogo a una birra dal taglio sensoriale prevalentemente selvatico e da un’acidità presente ma che non rientra nella categoria sour. Unendo i cromosomi sensoriali delle due categorie appena descritte, ecco che individuiamo birre che possono essere battezzate con l’espressione Wild Sour Iga, che presentano le caratteristiche sensoriali di entrambe le versioni, ovvero acidità marcata e sensazioni selvatiche.

C’è da ultimo da considerare il caso della recente diffusione di esperienze produttive (parzialmente, prevalentemente o integralmente) orientate al segmento delle fermentazioni non convenzionali, che ha portato ad affermarsi un’area procedurale contraddistinta dall’impiego di singole specie di Brettanomyces applicate mediante inoculo in purezza (100% brett). Brettanomyces i quali, a ben vedere, date le peculiarità del proprio metabolismo, troverebbero difficoltà nel trasformare per intero un mosto contenente ingenti quantità di zuccheri semplici: a questi provvedono, in effetti, ceppi di Saccharomyces naturalmente presenti nel microecosistema di un ambiente produttivo, lasciando ai lieviti selvatici il compito di “scarnificare” le strutture molecolari più complesse. Si tratta anche in questo caso di fermentazioni miste, in ordine alle quali, data comunque la preminenza del ruolo esercitato dal Brettanomyces inoculati in purezza, è sensato ricorrere a una locuzione che faccia riferimento alla specificità del microrganismo in azione. Una formula corretta e utilizzata è quella di Brett Ale o più genericamente di Brett Beer; a cui poter aggiungere, di volta in volta, le aggettivazioni Sour e Wild a seconda dei risultati percepiti nel bicchiere.

Finita lì? Macché! Proprio per niente, e per un motivo tanto evidente quanto inoppugnabile. L’orizzonte di cui parliamo è in continua evoluzione, ragion per cui il configurarsi di inediti protocolli produttivi può determinare, inevitabilmente, la necessità di rimodulare, di volta in volta lo schema di classificazione che a quell’orizzonte si applica. Senza considerare l’evoluzione del panorama degli attori della fermentazione. Ad esempio: possiamo escludere che i Brettanomyces, ancor oggi da collocare entro il recinto dei lieviti non convenzionali per natura e comportamento (di fatto sono considerati contaminanti), dunque posizionabili a metà strada tra i Cerevisiae e i batteri, possano in futuro – attraverso il meccanismo delle ibridazioni – dar vita a generi che si avvicinino sempre più ai Saccharomyces? Lieviti dunque destinati a sfumare ulteriormente i confini tra i due ambiti. Del resto, non esistono già, tra gli stessi Saccharomyces, ceppi inclini (negli esiti sensoriali prodotti) a imitare, per alcuni aspetti, il risultato organolettico dei Brett? Mettetevi comodi, insomma: il “Sour & Wild Show” è appena cominciato.