Kveik, il lievito scandinavo dalle caratteristiche sorprendenti
Nel mondo moderno birrario i lieviti stanno riacquisendo un loro spazio ed una loro dimensione dopo anni di scarsa considerazione e poco interesse da parte dei birrai, intenti per lo più a sopprimere le doti aromatiche in favore degli altri elementi della ricetta (vedi malti e luppoli), attratti da mirabolanti capacità attenuative, oltre che da ceppi che siano dei lavoratori affidabili senza che inneschino pericolose compromissioni del prodotto una volta che quest’ultimo abbandona il nido di produzione. Ed è lo stesso mercato dei lieviti a dimostrare quanto poc’anzi affermato con un ampliamento notevole dell’offerta dei lieviti e non solo. Basti pensare al caso “Brett Trois”, rivelatosi essere poi uno “scherzo da laboratorio”, ma che ha destato l’interesse di produttori casalinghi e non con i suoi aromi tropicaleggianti e hop-friendly. Anche l’enorme curiosità verso un ceppo di probabili origini belga ma estremamente interessante nella sua interazione con i luppoli aromatici, parliamo dell’oramai abusato Vermont/Conan, ha rappresentato uno step importante nell’interesse maturato dai produttori rispetto alle notevoli capacità dei lieviti di generare aromi intriganti e soprattutto non gracili e destabilizzanti sul prodotto come quelli apportati dai luppoli.
La punta dell’iceberg è rappresentata oggi dal kveik grazie al rimarchevole lavoro di Lars Garshol che ne ha permesso la conoscenza prima e la diffusione poi. Il termine kveik non identifica uno stile di birra, sebbene spesso lo si confonda con le birre familiari di fattoria norvegesi dove il kveik impernia un ruolo dominante, ma bensì è un termine dialettale norvegese usato per identificare il lievito non purificato utilizzato per generazioni dalle diverse famiglie di produttori di birra norvegesi. In realtà parliamo di una famiglia di lieviti anche molto diversi fra loro e che connotano le differenti regioni geografiche di produzione, non solo, all’interno delle diverse colture familiari spesso si rinvengono più ceppi di lievito (non solo Saccharomyces Cerevisiae) o addirittura batteri lattici. Appresa l’enorme eterogeneità ed ecletticità dei lieviti kveik e fatto sedimentare il concetto per cui queste colture sono storicamente tramandate per generazioni e generazioni dalle diverse famiglie agricole norvegesi distribuite geograficamente in territori anche diversi e distanti fra loro, possiamo ora confermare una caratteristica comune che li ha fatti conoscere e propagare alla velocità della luce, ovvero la loro capacità di essere dei “super-yeast”. In effetti la caratteristica che è balzata in prima pagina una volta venuta a conoscenza dell’esistenza di questi lieviti è sicuramente la loro facoltà di propagarsi e di fermentare un mosto a temperature sahariane, anche prossime ai 40 gradi. Ma l’elemento distintivo assolutamente degno di nota è l’assenza di composti responsabili di off-flavour, come sarebbe intuitivo aspettarsi in fermentazioni condotte a queste temperature ed ovviamente riscontrabili anche nei ceppi di lievito più neutri. Un super lievito anche nelle modalità di conservazione adoperate dalle rispettive famiglie rurali norvegesi, tipicamente fatto essiccare su tronchi di legno (kveikstokker) e conservati anche per periodi superiori all’anno e prontamente riutilizzati all’occorrenza. Ogni coltura di kveik possiede ovviamente un suo bagaglio aromatico caratteristico, con esteri a volte più o meno marcati ma comunque piacevoli e mai opulenti e che lasciano spazio il più delle volte agli altri elementi che compongono il prodotto.
Non nascondo la forte curiosità nell’aver utilizzato una coltura di Kveik Voss ricevuta direttamente dalla fonte in una ricetta di American Pale Ale in sostituzione dell’inossidabile American Ale. La “Kveik Pale Ale”, fermentata tra i 35 e i 42 gradi, è stata infustata dopo appena 1 settimana di produzione; il copioso dry-hopping è stato invece effettuato dopo appena 36 ore di fermentazione, ovvero ad attenuazione quasi conclusa. La birra si è rivelata essere davvero molto interessante, con una luppolatura molto ben in evidenza e mai messa in discussione da una lieve produzione di esteri di frutta a nocciolo che sembravano echeggiare il sopra già citato Vermont Ale e con una sensazione palatale vellutata e non graffiante (da alcoli superiori), come si potrebbe pensare in un prodotto fermentato a temperature infernali. Davvero interessanti invece le lievi note speziate e terrose avvertibili al palato (pepe/zenzero) che hanno conferito al prodotto una caratterizzazione interessante e che ben si armonizzava con la vivace luppolatura agrumata. Al fine di raccogliere una maggiore mole di dati sul comportamento di queste colture ho avuto il piacere di coinvolgere alcuni birrai che non hanno perduto la voglia di sperimentare ed osare, offrendo le colture e confrontandoci sui dati ed i prodotti ottenuti. Vincenzo Serra del birrificio dell’Aspide, con cui ho avuto un tete a tete scientifico rigoroso sui kveik, ha testato questi lieviti su alcuni dei suoi prodotti già in gamma e su specifiche one shot, ottenendo dati molto interessanti e prodotti assolutamente degni di nota, nonostante le fermentazioni rapidissime e condotte a temperature hot. Anche Salvatore Arnese, birraio del Birrificio Irpino, ha deciso di testare la coltura di Kveik Voss su prodotti molto ambiziosi sulla carta, ovvero una Sour Iga (prodotta con due ceppi di Lactobacillus forniti da me e mosto di Fiano della cantina Di Meo), lasciata fermentare a 36 gradi con il Voss successivamente alla fermentazione lattica, e una Sour Ipa, prodotta con gli stessi ceppi di Lactobacillus e Kveik Voss ma generosamente luppolata a freddo. Dai primi test sembrerebbe che il Voss ben si comporta anche su basi particolarmente acide (pH 3.5), senza rilasciare off flavour e fermentando in modo altrettanto rapido (dimezzamento dei tempi di fermentazione).
Al di là dei differenti apporti organolettici, le colture kveik hanno destato l’attenzione da parte dei ricercatori circa la straordinaria capacità di questi ceppi di resistere ai fattori stressanti. L’attitudine e la potenzialità dei kveik di propagarsi a temperature normalmente al limite estremo di crescita per il Saccharomyces Cerevisiae, così come la possibilità di conservarsi nel tempo in una forma essiccata (non propriamente ottenuta con metodiche da laboratorio) e la destrezza con cui riesce a fermentare un mosto di birra (inconsueto per lieviti in teoria non addomesticati) ha attratto gli scienziati nello studiarne e ricostruirne le caratteristiche genetiche. È il caso del gruppo di lavoro canadese di Tyrawa et al che nel 2017 ha pubblicato un lavoro condotto proprio su queste colture ancestrali norvegesi eseguendo dei test genetici specifici (estrazione del DNA, amplificazione mediante PCR e suo sequenziamento) e misurazioni quali/quantitative su micro-fermentazioni (gas-cromatografia e spettrofotometria) nonché comparati ai risultati ottenuti con i ceppi commerciali maggiormente utilizzati (ceppi britannici, americani e tedeschi). L’aspetto che maggiormente ha incuriosito il gruppo di ricercatori è la presenza di molteplici caratteristiche positive per un mosto di birra pur trattandosi di ceppi di tradizione familiare rinfrescati e conservati negli anni in maniera rudimentale e in assenza di metodiche d’elezione per la loro selezione. In natura è infatti complicato rinvenire ceppi dotati della combinazione di tutti i tratti desiderati, motivo per cui spesso si rende necessario attuare programmi di selezione rigorosi e meticolosi. Le colture kveik non solo incarnano tutti i connotati auspicabili per un processo di fermentazione alcolica ma sono impreziosite di elementi che le rendono ancora più speciali e affascinanti, come visto nell’ introduzione di questo articolo. I risultati di tutti i test effettuati evidenziano quanto riportato; il sequenziamento genetico rileva un’origine ben diversa dai cugini Cerevisiae selezionati e commercializzati dall’industria, denotando il forte imprinting territoriale di questi lieviti. La carta d’identità di questi ceppi mostra inoltre la presenza dei tratti desiderati da un punto di vista tecnologico, ovvero capacità di fermentare il maltosio e il maltotriosio (presenza dei geni che permettono la sintesi delle proteine responsabili della traslocazione nella cellula di questi zuccheri), produzione assente o minima di composti fenolici (come nel caso dei lieviti “addomesticati” le famiglie kveik sono POF-), produzione di esteri piacevoli (etil caproato, etil caprilato, etil decanoato), elevata tolleranza all’etanolo (oltre i 10° alcolici), elevata termotolleranza e capacità di crescita anche a temperature superiori ai 42° (come nel caso di alcuni ceppi analizzati), capacità di flocculare e sedimentare. Per alcuni dei ceppi analizzati queste caratteristiche risultano essere potenziate e fortificate rispetto anche ai ceppi addomesticati e selezionati dall’industria, rimarcando il grandioso processo di selezione che hanno subìto queste colture in risposta a stimoli ambientali particolarmente tempranti. Al di là del “fascino scientifico” che queste colture possono procurare agli appassionati o agli addetti ai lavori restano indubbie le notevoli doti e i vantaggi tecnologici che un lievito così fortemente tollerante ai fattori stressanti può fornire. Vedremo se ci sarà una loro diffusione ed un loro spazio in giro per il mondo o se rimarranno circoscritti nelle loro regioni primordiali di origine.