Focus

Dalle stalle alle stelle: il Brettanomyces

Il gioco di parole era troppo ghiotto per potermi esimere: da sempre osteggiato e temuto come agente infetto, conosciuto soprattutto per le sue note olfattive di stallatico, pare che il famigerato Brettanomyces – bretta per gli amici – stia vivendo un’epoca d’oro negli ultimi anni. Sempre più birrai in cerca di nuovi profili aromatici e nuove soluzioni per stupire il mercato ne fanno ricorso, nelle maniere più svariate: in rifermentazione in bottiglia, in fermentazione secondaria in acciaio o in botte, in fermentazione primaria mista o addirittura esclusiva al 100%. Persino nel mondo del vino, che da sempre lo considera un nemico da combattere senza tregua, si intravedono le prime crepe: chi ha partecipato a manifestazioni di vini cosiddetti “naturali” l’avrà trovato fare capolino in qualche bicchiere senza che nessuno gridasse allo scandalo. L’estetica del gusto, come la Natura, è sempre in evoluzione.


Partiamo dal principio: cosa sono i Brettanomyces? Sono lieviti, esattamente come i più famosi e apprezzati Saccaromyces Carlsbergensis (o Pastorianus) e Cervisiae usati comunemente per la fermentazione di bevande alcoliche, birra in primis. Non sono però esattamente dei parenti stretti di questi lieviti: più precisamente appartengono a un genotipo differente e, come tali, hanno caratteri e peculiarità tutte loro. Vengono comunemente chiamati lieviti selvaggi proprio perché in genere la loro presenza non è indotta né auspicata. In realtà sono selvaggi molti altri lieviti, non solamente i brettanomiceti, in pratica tutti tranne quelli comunemente utilizzati e desiderati nelle fermentazioni “canoniche”. Se prima della microbiologia e dei processi produttivi moderni la presenza di contaminazioni era di fatto scontata e inevitabile, il gusto moderno per decenni ha messo queste specie di lieviti in un angolo, osteggiate per sentori non sempre apprezzati che vanno dal già citato stallatico – la famosa sella di cavallo – al pollaio, a note fenoliche pungenti che possono risultare difficili se non sgradevoli, a volte anche a sentori “formaggiosi” dovuti alla produzione di acido isovalerico. Il Brattnomyces può essere questo certamente, ma anche ben altro. In Belgio per la verità c’è una enclave di produzioni comunemente accettate e apprezzate che da parecchio tempo, secoli in alcuni casi, beneficiano del lavoro di questi lieviti: il Lambic innanzitutto, dove svolge un ruolo cruciale, ma come non citare anche la trappista Orval, classico mondiale che li utilizza nella fase secondaria della fermentazione. Anche nelle acetiche Flamish Red delle Fiandre Occidentali i brettanomiceti svolgono un ruolo, sebbene più marginale.

Il loro lavoro nella birra è molto complesso, con risultati dipendenti dai differenti ceppi utilizzati. Prediligono la presenza di ossigeno nel mosto e lavorano più velocemente a temperature elevate, producendo però risultati meno interessanti e non molto distanti da quelli dei normali Saccaromyces. Sono infatti le lunghe fermentazioni in botte a temperatura di cantina a farli esprimere al meglio: il legno permette una lieve microssigenazione, mentre grazie al lavoro più lento indotto da temperature moderate è possibile ottenere le caratteristiche peculiari ricercate in questi lieviti, cercando di non eccedere nelle note animali, di cantina umida e fenoliche. A seconda del ceppo avremo la prevalenza di sentori di frutti rossi spesso descritta come “torta di ciliegie”, oppure il tropicale, le erbe mediterranee e la salvia, un agrumato limoso, tanto vinoso, cuoio e speziature. Probabilmente la descrizione migliore del suo contributo è quella data dagli americani che spesso utilizzano l’aggettivo funky, privo di significato da un punto di vista organolettico ma che rende immediatamente l’idea: qualcosa di singolare, fuori dal coro, che se usato in maniera appropriata riesce ad aggiungere complessità e nuove dimensioni gustative. Bisogna saper aspettare: nei primi stadi del suo lavoro possono emergere maggiormente i sentori più sgradevoli ma, come dicono alcuni birrai, se la birra ti sembra poco piacevole probabilmente devi solo dagli ancora tempo per finire il suo lavoro. Viene descritto anche come lievito iperattenuante per la sua capacità di metabolizzare virtualmente tutti i carboidrati del mosto, compresi amidi e destrine poco o per nulla attaccabili dai normali Saccaromiceti. Questa caratteristica è più evidente quando il Brettanomyces viene usato in tandem con altri organismi iperattenuanti come i batteri lattici, mentre da solo, quantomeno nel breve periodo, fornisce un’attenuazione comparabile a quella dei normali lieviti da birra. È probabile che in tali condizioni di “esclusiva” si dedichi e si soddisfi principalmente degli zuccheri semplici, mentre il lavoro su quelli complessi richiede un tempo ben più lungo.

Oggi l’uso dei Brettanomyces rappresenta una frontiera e una sfida nel mondo della birra contemporanea. In verità non è così semplice alla cieca stabilire se i sentori brettati siano effettivamente voluti o se la “special edition” che abbiamo fra le mani sia invece figlia di una colpevole contaminazione riciclata. Potrei suggerire un principio dettato dall’esperienza, poco scientifico e per nulla assoluto, ma empiricamente abbastanza fondato: quando il Brettanomyces è cercato dal birraio o addirittura direttamente inoculato, il prodotto finale ha buone probabilità di essere gradevole e con un senso compiuto; se invece si è trattato di un “incidente” (in genere per problemi di igiene) spesso si manifesta come tale, con difetti di struttura o con sentori sgradevoli dovuti anche ad altri contaminanti. Come avvenuto per altre tipologie innovative l’ispirazione è partita da alcuni stili classici del Vecchio Continente, per poi essere sviluppata e portata al successo Oltreoceano e, infine, tornare indietro e trovare spazio oggi anche nei birrifici più innovativi d’Europa. Sono parecchie le birre americane che utilizzano i brettanomiceti, spesso in combinazione con batteri lattici al fine di ottenere Sour Ale che sono veri capolavori: i birrifici più famosi e “storici” sono Lost Abbey, Russian River, Allagash, New Belgium, ma oggi sono moltissimi altri quelli che lavorano a queste sperimentazioni, e alcuni come Crooked Stave se ne dedicano in maniera esclusiva. Il dominio del Bretta non è però confinato solo al mondo delle acide: la Mo Betta Bretta, collaboration fra Russian River e New Belgium, è una Wild Ale fermentata al 100% con il ceppo Anomalus che lascia emergere esteri da belga, soprattutto tropicale, insieme ad una caratteristico aroma di cuoio. La Brux, collaboration fra Russian River e Sierra Nevada, è un tributo al ceppo Bruxellesis, che usato solo in rifermentazione dona una lieve acidità e sentori “selvaggi”, vinosi e di limone. Anche in Europa alcuni birrifici stanno seguendo questa strada, e in Italia in particolare ne abbiamo parecchi attivi da qualche tempo su questo filone, con interpretazioni e procedimenti spesso originali e risultati eccellenti. Per fare qualche nome di birre che risultano influenzate da questi microrganismi possiamo citare quelle di Renzo Losi di Black Barrels, precursore con Panil in Italia, le produzioni del Birrificio Montegioco come la Mummia o la Dolii Raptor, le creazioni originalissime di Loverbeer di Valter Loverier, alcune produzioni speciali del Birrificio Ducato e Toccalmatto. Una lista che si potrebbe facilmente allungare col nome di altri birrifici meno noti ma altrettanto agguerriti, che stanno iniziando ad esplorare il mondo affascinante del Brettanomyces e delle Wild Ales.

 


Non chiamatelo selvaggio

Risulta difficile basarsi sulla letteratura scientifica per dare una descrizione precisa e coerente dell’operato dei lieviti così detti selvaggi. Ad oggi infatti non hanno riscosso grande attenzione da parte degli studiosi, maggiormente impegnati come è ovvio nella ricerca riguardante quelli “ufficiali” utilizzati più comunemente. I ceppi noti che sono stati isolati non sono nemmeno in grande numero: Lambicus, Bruxellensis, Claussenii, Anomalus, Custerianus, Nanus e Naardenensis. I primi due sono i più famosi, coinvolti principalmente nella fermentazione del Lambic: il Lambicus si è evoluto nella Valle della Senne, zona tipica di produzione, prosperando nei frutteti di ciliegie di Schaerbeek. La buccia della frutta è infatti uno degli habitat tipici di questi microorganismi. Il Bruxellensis proviene dalla medesima area ed è figlio della stessa storia, ma si distingue dal cugino per un profilo più “malleabile”, con note animali meno aggressive. Oggi che il contesto urbano è cambiato molto aggredendo le campagne e i frutteti sono quasi interamente scomparsi, queste specie si conservano e trovano alloggio proprio all’interno dei birrifici che praticano la fermentazione spontanea, in particolare nelle porosità dei legni delle botti. Sono ambienti fragili e questo è il motivo per cui alcuni di questi produttori sono restii a spostare anche solo le tegole dei tetti: la Valle della Senne è finora l’unica zona conosciuta al mondo in grado di garantire un risultato consistente per le birre a fermentazione spontanea e ciò è dovuto in larga parte alle specie di brettanomiceti che lì sono emerse e si sono evolute nei secoli, uno dei pochi casi in cui ha senso per la birra parlare del concetto di terroir tanto caro al mondo del vino. Il Claussenii, che prende il nome dal tecnico della Carlsberg che per primo isolò alcuni di questi ceppi, è tipico invece delle Stock Ale inglesi lungamente invecchiate, ha un profilo meno wild dei parenti belgi mostrando sfumature tropicali e fruttate di banana insieme a classiche note fenoliche, di cuoio e speziate. Spesso viene assimilato all’Anomalus, del quale è parente stretto e condivide le caratteristiche. Degli altri si sa poco e nulla: da pochissimo tempo sono disponibili commercialmente per la birrificazione e i primi esperimenti sono a dir poco carbonari, spesso dovuti alla curiosità e alla sperimentazione degli homebrewers americani.

 

Se la colpa non è del Bretta

Una convinzione radicata e sostanzialmente poco corretta è che il Brettanomyces sia spesso il responsabile della acidità tagliente che a volta capita di incontrare in bottiglie di birra fallate e infette. Ciò in generale non è vero: certamente acido lattico e acetico vengono prodotti insieme ad alcool e anidride carbonica da questa specie di lieviti, ma in generale non in quantità tale da andare oltre ad una lieve vena acida. Sono sempre i batteri a portare il pH molto in basso.