Italian Lager: perché possiamo parlare di una via italiana alle basse
Correva l’anno 2015. Firenze, la cornice quella del festival ruotante attorno alla proclamazione del titolo di Birraio dell’Anno 2014. Il pubblico mormora, si condividono le impressioni su chi possa essere, nella volata finale, a spuntarla. Tra i candidati, quella volta, Simone Dal Cortivo, ovvero il signor Birrone, marchio veneto da sempre identificato come una tra le avanguardie del partito delle basse fermentazioni. Nel giro dei pronostici qualcuno insinua che “forse non basta per arrivare al successo essere un alfiere delle Lager”. Invece il verdetto affermerà il contrario. Non solo, tre anni dopo, la storia segue una parabola analoga, incoronando Josif Vezzoli, volto della scuderia Elvo (Graglia, Biella), essa stessa portabandiera della fazione delle basse. Questo breve preambolo, anche d’atmosfera certo, serve tuttavia a inquadrare tre punti che riteniamo, in tutto e per tutto, di merito. Primo: i fenomeni di trasformazione del costume birrario non di rado hanno uno svolgimento ben più rapido di quanto possa essere avvertito da parte degli stessi osservatori di settore. Secondo: lo Stivale ha scoperto, e consolidato, una sua vocazione, oggi strutturale, a produrre e consumare tipologie del segmento Lager. Terzo: si tratta, in realtà, non esattamente di una scoperta, ma più correttamente di una riscoperta.
E allora perché una fase di incubazione così lunga prima del successo odierno? Il fatto è che i lieviti neutri d’ispirazione tedesca e mitteleuropea hanno dapprima sofferto l’esuberanza di quelli belgi (di cui tutti, in quello scorcio a cavallo tra questo secolo e il precedente, siamo stati un po’ invaghiti); e poi sono stati costretti all’angolo dalla fantasmagoria dei luppoli di stampo modernista. Anche perché il pubblico, soprattutto al tempo, amava i fuochi di artificio più che i delicati equilibri di una Pils, e forse il tasso tecnologico e le conoscenze dei birrifici non erano ancora cresciute abbastanza per sospingere ai livelli attuali uno stile tanto facile da bere quanto difficile da produrre. Tornare in auge non era scontato, ed è successo per alcune ragioni precise. Da un lato produttivo il movimento per radicarsi e stabilizzarsi aveva bisogno di prodotti da vendere, semplici nel costrutto, dai costi tendenzialmente più contenuti rispetto alle IPA, dove il caro luppolo incide per la maggiore, prodotti capaci di venire incontro alla richiesta di gradazioni medio-leggere e di allargare il pubblico di riferimento. I birrai italiani si sono rivelati abili a interpretare con perizia e brillantezza i disciplinari stilistici tradizionali della famiglia Lager, e poi, su alcuni di quei canovacci, hanno esercitato il valore aggiunto della rivisitazione, talvolta della vera e propria licenza, tanto da arrivare alle soglie di un’autentica nuova categoria stilistica. Ecco allora che abbiamo voluto rappresentare una panoramica su quello che potremmo definire lo stato dell’arte nel cantiere delle Lager all’italiana.
LE ITALIAN PILS
Tra gli adattamenti in salsa tricolore di canoni birrari appartenenti al recinto Lager, quello che gode di una più assodata percezione è senza dubbio il genere cui fanno capo le produzioni ormai diffusamente designate come Italian Pils. Su queste colonne ne abbiamo parlato più volte in passato (ad esempio qui), sottolineando come già il tema fosse nell’aria (almeno per gli sguardi più attenti) da almeno una decina d’anni. D’altra parte, in quella fase di decollo, il fronte artigianale del nostro Paese, alla ricerca di elementi di riconoscibilità, si era impegnato nello spingere su altri pedali: ad esempio su ingredienti a km 0 come la castagna, per poi passare alle uve con l’esperienza delle Italian Grape Ale.
Eppure, nel 2010, da parte di un gruppo di assaggiatori italiani, tra i quali un decano come Flavio Boero, si arrivò – anche confrontandosi con un giudice internazionale di lungo corso come Derek Walsh – a essere in procinto di inoltrare al BJCP (il Beer Judge Certification Program, le cui Styles Guidelines sono di riferimento in materia di classificazione brassicola) una formale domanda per la registrazione, appunto, dello stile Italian Pils. Ecco, al di là del corso che la vicenda ha poi avuto, l’episodio merita di essere evidenziato in quanto, dovendo fondare quella richiesta sull’oggettività di alcuni tratti distintivi della tipologia, fin da allora si puntarono i fari sulla pratica del dry hopping. Un elemento che accomunava, in effetti, etichette eccellenti quali la Tipopils (di Birrificio Italiano), la Via Emilia (Ducato), la Grigna (Lariano) o la Magut (Lambrate). Birre caratterizzate tutte da un taglio inoppugnabilmente di grande impatto, sotto il profilo sensoriale, ma che non fu sufficiente a ottenere la canonizzazione della aspirante nuova designazione: le referenze portate come rappresentative di un loro specifico e autonomo filone pagavano infatti lo scotto di una variabilità troppo ampia rispetto ad altri parametri produttivi. Canonizzazione che invece è arrivata dalla Brewers Association, associazione che riunisce i birrifici americani e che organizza l’autorevole concorso World Beer Cup, che ha inserito nelle sue Style Guidelines un nuovo stile chiamato proprio Italian-Style Pilsner.
Negli anni, d’altro canto, è emerso comunque in modo chiaro come il fattore identificativo delle Pils all’italiana risieda in un profilo luppolato di portata netta e incisiva, estranea e superiore a quella tipica delle Pils tedesche. Un impiego di varietà tradizionali che il dry hopping enfatizza creando quadri olfattivi nuovi, a volte arricchiti da pennellate aromatiche di luppoli di nuova generazione, sempre tedeschi, che non devono comunque mai stravolgere il disegno né apportare aromaticità peculiari dei luppoli americani e nuovomondisti.
Ma veniamo alla fatidica domanda: cosa si intende per Italian Pils? L’Italian Pils è una declinazione delle German Pilsner (o meglio, della sua edizione tedesco-settentrionale, più asciutta e dal finale amaro più nitido), la cui fisionomia è definita da un dry hopping con luppoli nobili tedeschi. Un gesto che si traduce nel bicchiere in un olfatto potenziato che non alza soltanto il livello del volume della luppolatura in termini aromatici, ma anche della varietà delle note percepite regalando una tipica freschezza citrica, floreale, in aggiunta a note speziate ed erbacee. La controparte maltata (100% Pilsner, raramente affiancato da basse percentuali di Carapils, Carahell, Monaco) non deve scomparire e i classici sentori di miele e panificato chiaro si devono innestare, pur con intensità gusto-olfattive minori, nel bouquet luppolato. Una bevuta disinvolta, dissetante, ma allo stesso tempo capace di garantire maggiore intensità sensoriale rispetto all’esecuzione canonica del disciplinare tedesco. In dry hopping il birraio deve (o almeno dovrebbe) attingere a luppoli classici tedeschi, pur potendo amplificare lo spettro con leggere incursioni offerte da varietà più moderne ma sempre mitteleuropee. Importante è non snaturare il timbro tipico di una Pils trasportando le sensazioni ad esempio sul campo della frutta esotica e del resinoso troppo pronunciato, proprio delle IPA di stampo americano. In tal caso la classificazione dovrebbe propendere per le IPL. Corpo da medio a esile. Finale secco all’insegna di un amaro progressivo e lineare. Colore da paglierino a dorato (EBC 4-8); grado alcolico compreso tra 4,5 e 5,5 gradi; OG 11-12,5 Plato; FG 1,5-3 Plato; IBU 30-40.
Alcuni esempi? 50&50: Man Bassa; Altotevere: AtPils; Birra dell’Eremo: Zoe; Birrificio Italiano: Tipopils; Birrificio Rurale: 40-50-40; Busa dei Briganti: Eva K.; Foglie d’Erba: Just Kids; Hop Skin: Sold Out; Impavida: Pelèr; La Buttiga: Pils In Love; La Piazza: Jasper Pils; Lariano: Grigna; Liquida: Ploner Pils; Malaripe: Sparwasser; Manerba: Luppululà; Monpier: Sciliar; Mukkeller: Mupils; Ritual Lab: Ritual Pils; Vertiga: In Saaz We Trust; War: Acqua Amara.
KELLER
Se con le Italian Pils si può avvertire l’odore di una possibile elezione a nuova tipologia ufficiale, così non è per le referenze riconducibili all’area delle Keller. Per diversi motivi. Primo, perché quella stessa area, nella sua espressione nativa rimandante alla tradizione bavarese e francone in particolare, è tutt’altro che un campo chiaramente delimitato, quantomeno, tutt’altro che omogeneo. Secondo, perché agli occhi di un tedesco, qualsiasi Lager italiana, in quanto non filtrata, è da catalogare come Keller. Volendo comunque ricercare un concetto condiviso di Kellerbier, si può fare un sforzo nel cercare le peculiarità comuni delle interpretazioni del nostro scacchiere nazionale. Partiamo allora da un dato attorno al quale potrebbero non sorgere troppe discussioni. Le Keller prodotte lungo lo Stivale – intendiamo ovviamente quelle che lo sono con consapevolezza negli intenti, qualità nella fattura e continuità nei risultati – si differenziano, anzitutto, dalle appena trattate Pils connazionali, per due aspetti. Da un lato la maggiore consistenza (e talvolta la maggior profondità, se non proprio tostatura) delle basi maltate, le quali così recuperano un rapporto di forza più equilibrato nel confronto con le spinte luppolate. Da una seconda parte, il minore slancio (a prescindere dalle più robuste fondamenta cerealicole) espresso dalla luppolatura in aroma che a differenza delle Italian Pils perde l’uso del dry hopping, e soprattutto in amaro dove si avvicinano di più ai modelli canonizzati in Germania. Tuttavia va precisato che rispetto ai riferimenti franconi, da questa parte delle Alpi, si tende ad approfittare meno dei margini di manovra concessi a una Keller in quanto birra in qualche modo rustica; e dunque non così rigidamente sorvegliata, ed eventualmente sanzionata, a fronte di certe sbavature sensoriali. In soldoni? Semplificando oltre confine una Keller può non lesinare in fatto di acetaldeide (mela verde o, a più elevate concentrazioni, note di vernice); diacetile (burro fuso); acido solfidrico (chiara d’uovo e, a maggiori concentrazioni, uova sode); e, nelle versioni chiare, Dms (mais cotto). Problematiche che nel perimetro delle keller franconi, vengono derubricate al rango di licenze ammissibili o quantomeno tollerate, ma che risultano assenti nelle migliori nostre produzioni. Il tocco francone nelle espressioni italiane trova manifestazione con una rotondità lattea e di affienato, può essere ricercato con un lievito in grado di graffiare con leggere, quanto gradite, esterificazioni, o con un profilo maltato più agreste che evoca una nota leggermente grainy. In una parola, le nostre Keller risultano più curate, meno ruvide, e sì, mediamente più pulite e più moderne.
Qualche esempio? Alder: Zwickel e Forelle; Almond: Oro dei poveri; Altavia: Badani Breakfast Lager; Antikorpo: Grommet; Brasserie della Fonte: Keller; Bonavena: Bonakeller; Carrobiolo: Keller; Clandestino: Keller; Lariano: Serial Keller; Lieviteria: Keller; Mastino: Keller; Mukkeller: Mukkellerina; Opperbacco: Rusthell; Porta Bruciata: Zwickel; Torre Mozza: Koller; Vento Forte: Outlaw; Jungle Juice: Ute.
BOCK
A metà strada tra le Italian Pils e le Keller nostrane, in termini di chiarezza nel delineare un identikit stilistico, troviamo le Bock all’italiana. Perché sebbene ci si trovi onestamente piuttosto lontani da precondizioni solide per cui sia possibile ipotizzare il configurarsi di un nuovo vero e proprio sottostile originale, tuttavia, è altrettanto vero che esiste un’accezione più o meno condivisa attraverso la quale i birrai nostrani tendono a declinare il modello stilistico delle birre tedesche originarie di Einbeck, così come le loro gemmazioni.
A tale proposito, infatti, gli elementi sul terreno sono decisamente ben definiti, tali da costituire quello che potrebbe essere un paradigma non studiato a priori (con il proposito, magari, di distinguersi dagli archetipi tedeschi), ma piuttosto affiorante come risultato di un comune sentire. Ma di quali forme parliamo? Anzitutto una certa propensione a cercare (se non talvolta a infrangere verso il basso) il limite inferiore della finestra relativa ai valori alcolici di riferimento per la categoria (a fini d’inquadramento, riportiamo le indicazioni riferite dal Bjcp: da 6.3 a 7.4 gradi per le Helles Bock; da 6.3 a 7.2 per le Dunkles Bock; da 7 a 10 per le Doppelbock). In seconda battuta, una lampante risolutezza nel plasmare la corporatura della bevuta secondo principi di agilità e scorrevolezza, evitando quegli accumuli zuccherini (tra malti speciali e frazioni fermentabili non svolte) che arrotondano così pinguemente i fianchi delle canoniche Bock germaniche. Terzo punto, la ricerca di un naso meno pendente verso il lato caramellato della forza. Quarto comma, infine, la modellazione di un bilanciamento gustativo-palatale nel quale le componenti di amaricatura apportate dal luppolo sono arruolate in misura non diremo massiccia, ma senz’altro superiore rispetto all’ortodossia tedesca. Insomma, un insieme di prerogative confluenti verso l’obiettivo dichiarato di rendere la sorsata quanto più possibile agevole e reiterabile.
A veder bene si è di fronte a una parabola dotata di una sua coerenza; certo, una parabola non perfettamente lineare, ma scandita da accelerazioni impresse spingendo ora su un pedale ora su un altro, tra quelli che abbiamo evidenziato come parametri distintivi delle Bock tricolori. Tra le prime esperienze nazionali troviamo la Bibock del Birrificio Italiano (6 gradi) e la Porpora di Lambrate (8 gradi), con le loro incisive venature amaricanti. A partire da tali premesse, si è prodotta una genealogia nella quale – solo a titolo di campionatura, tra le tante altre etichette rappresentative da poter citare a sostegno della tesi qui sostenuta – ricordiamo birre quali la Heller Bock di Elvo (7 gradi, tessitura snella e, di nuovo, dotata di lineamenti luppolati); la Falesia di Lariano (7 gradi, asciutta e pericolosamente scorrevole); la Deiva di Altavia (6,8° alc. dal sorso assai disinvolto); La Bock di Ritual Lab (6.2° alc. e grande equilibrio gustativo). Vale la pena menzionare infine Il Montante di Brewist (Doppelbock da 7,3° alc.), un bicchiere che, nelle proprie evocazioni pugilistiche, risulta emblematico nel tratteggiare il temperamento suo e delle sue sorelle italiane, abili a dissimulare la rispettiva forza alcolica e, perciò, capaci di colpire e stendere con facilità micidiale.
ALTRE LAGER ALL’ITALIANA
Per scrupolo di precisione sottolineiamo come la scelta di fondo che ha orientato questo approfondimento, e che ha indotto a focalizzare l’attenzione su tre segmenti stilistici precisi, non implichi assolutamente un sottinteso per cui in ambito Lager, non esistano altre tipologie degne di nota. Anzi, è vero il contrario: il nostro Paese offre esecuzioni davvero interessanti in ordine a numerosi altri generi a bassa. Quali? Si va da quello delle Helles, territorio a dire il vero poco battuto, in ordine al quale potremmo citare, tra altre, la SS 46 di Birrone, la Cangrande di Mastino o le più recenti versioni di Birracruda o di Brewfist con la sua Bassa; a quello delle Vienna (tassello toccato da marchi quali Canediguerra o Impavida); dal filone delle Märzen (assai valide, ad esempio, quella di Elvo, quella di Batzen e quella di BiRen, battezzata Renazzenfest); al perimetro delle Rauch (qui troviamo, per citare alcuni nomi, ancora Elvo, poi Brasseria della Fonte con la Viel Rauch e Altavia con la Scau).
Ecco, a chiudere l’argomento delle Lager italiane, un paragrafo a parte occorre forse riservarlo alle Schwarzbier e alle Bohemian Pilsner. Nel terreno delle nere tedesche troviamo esempi sostanzialmente aderenti ai modelli classici (di nuovo quella di Elvo, quella di Hammer, poi Alder con la Imbiss, PicoBrew con la Negher, Monpiër de Gherdëina con la Sassonero, Malcantone con la Felix), però accanto si fanno notare etichette dotate di un ragguardevole tasso sperimentale. Su tutte la Nigredo di Birrificio Italiano (con luppoli tostati) e la Black Lager Hallertau targata Carrobiolo, che grazie al temperamento degli odorosi coni trasporta il modello di riferimento verso un perimetro stilistico etichettabile come hoppy dark lager o hoppy black lager. Per quanto riguarda invece le tradizionali Bohemian il lavoro di reinterpretazione più che sul lato luppolo ha lavorato sul fronte degli zuccheri residui, dell’equilibrio gustativo e della pulizia olfattiva. Messa al bando quella sensazione di diacetile tradizionalmente tollerata nelle birre ceche ma che ammanta i profumi con una fastidiosa nota burrosa, si è provveduto a rendere più fragrante l’aroma, evitando ad esempio caramelizzazioni troppo spinte, e più scorrevole la bevuta. Esempi degni di nota? AntiKorpo: Home Spot, Busalla: Cek, Canediguerra: Bohemian Pils, Birrone 12° Czech Keller e Blind Pils, Elvo: Bohemian Pils.