Italian Pilsner: possiamo parlare di stile?
Non sono in pochi a pensare che alcune delle migliori pils al mondo siano prodotte in Italia. Proprio riflettendo su una questione stilistica, oltreché sull’eccellenza di numerose produzioni nazionali, spinto anche da una riflessione secondo il quale si può parlare da almeno dieci anni di un sottostile Italian Pils, categoria non troppo “spinta” sul piano comunicativo a differenza di quanto sia stato fatto in passato con le birre alle castagne e si stia facendo oggi con i cereali autoctoni e le Italian Grape Ale, mi sono convinto ad interpellare alcuni dei principali protagonisti e sviluppare spunti di dibattito.
Bruno Carilli mi ha rivelato come una decina di anni fa, prima ancora di aprire Toccalmatto, in una chiacchierata con Flavio Boero fosse finito a discorrere proprio sulle peculiarità della Tipopils e delle tante birre, sia italiane che straniere, che essa ha ispirato e sulla possibilità di inquadrarle in un sottostile apposito, distinto dalle classiche Bohemian e German Pils, con queste ultime ulteriormente suddivisibili tra bavaresi e nord tedesche. Un paio di anni dopo, si parla del 2010, Boero e altri degustatori e docenti della fu ADB come Alessandra Agrestini e Davide Terziotti erano in procinto di inoltrare al BJCP la formale domanda per la definizione dello stile Italian Pils: si avvalsero della consulenza di un giudice BJCP di grande esperienza internazionale come Derek Walsh, individuarono nel dry hopping il tratto distintivo che differenziava le produzioni italiane e stesero un elenco di esempi concreti per individuare lo standard dello stile. Oltre alla Tipopils indicarono la Via Emilia di Ducato, la Grigna di Lariano e la Magut di Lambrate. Tutte birre eccellenti e che ancora possiamo gustare, ma fu però proprio la definizione degli standard il problema che fece arenare la richiesta formale: le birre prese in considerazione e le altre Pils artigianali all’epoca disponibili mostravano una variazione troppo ampia di O.G, grado alcolico e unità d’amaro (IBU) per poter rientrare come sottocategoria di uno stile dotato di parametri così precisi come le Pils. Ricordando il lavoro svolto a quei tempi, Alessandra Agrestini sostiene che la fortuna delle IGA, successivamente entrate come primo stile italiano nel BJCP, sia stata proprio quella di non essere un vero e proprio stile ma una tipologia dai parametri amplissimi in quanto a colore, caratteristiche organolettiche e grado alcolico ma inequivocabilmente individuata da un ingrediente come le uve o il loro mosto, del tutto originale rispetto alla tradizione birraria e, al contempo, così saldamente radicato nel territorio e nella cultura italiani da poter rappresentare un vessillo nazionale. Il dry hopping, invece, secondo la consulenza di Walsh, non era un tratto sufficiente a individuare un sottostile del BJCP in assenza di altre stringenti caratteristiche comuni tra le birre prese in considerazione come canoni della tipologia.
L’episodio della mancata domanda al Beer Judge Certification Program testimonia quindi che l’estrema creatività dei nostri birrari, che è spesso una delizia per i palati che godono delle loro produzioni, può diventare una croce quando si tratta di incasellare le birre in categorie definite in modo rigido e con ben precisi vincoli produttivi od organolettici: è ciò che ha portato Josif Vezzoli di Birra Elvo, uno dei produttori italiani più premiati all’European Beer Star, a chiedermi perché, secondo la mia esperienza di giudice in quel concorso, mentre le sue Schwarz, Heller Bock e Doppelbock hanno raccolto ripetuti allori, la sua ottima Pils non sia mai stata premiata. La mia risposta è che la Pils di Elvo, pur essendo caratterizzata solo da late hopping e non da dry hopping, ha comunque un’identità troppo luppolata per gli standard tedeschi in canoni di Keller Pils: non dobbiamo infatti dimenticare che secondo il disciplinare teutonico “Pils” (così come “Helles” o “Dunkel”) indica una birra necessariamente filtrata e pertanto tutte le nostre produzioni artigianali sono definite da loro Keller Pils.
Un altro episodio emblematico a questo proposito avvenne nell’edizione 2011 dello European Beer Star, allorché la Via Emilia conquistò la medaglia d’argento nella categoria Keller Pils. Un giudice tedesco disse a Giovanni Campari: “la tua birra poteva meritare l’oro ma era troppo luppolata e secondo me caratterizzata da un’aggiunta di luppoli americani in aroma”. In realtà sbagliava perché quella fragrante nota agrumata all’olfatto non aveva alcuna origine americana ma derivava da una massiccia dose di Tettnanger, così inusitata per gli standard germanici da divenire irriconoscibile anche ad un naso esperto. Lo stesso dubbio peraltro colpì molti all’uscita della prima Workpiece Pils di Hammer, la “mamma” dell’odierna Bundes, anche in quel caso la fragranza di buccia di limone venne ottenuta da Marco Valeriani grazie a un’autentica pioggia di luppolo di Tettnang.
Parlando con gli artefici e i protagonisti della “via italiana” alla Pils si trovano ancora una volta posizioni diverse. Agostino, birraio e fondatore del Birrificio Italiano, pioniere e “papà” di tutte le Italian Pils grazie alla sua audacia nell’utilizzo del dry hopping in uno stile in cui nessuno al mondo lo aveva provato prima dice infatti: “sono naturalmente orgoglioso di ciò che la Tipopils ha generato, sia per le ottime birre ad essa dichiaratamente ispirate che sono nate in tutto il mondo, dalla Via Emilia alla Pivo Pils di Firestone Walker fino alle Pils di Rulles, Trou du Diable e Oxbow, sia perché le Pils hanno finalmente guadagnato la considerazione che meritano da parte dei consumatori più avveduti e dei divulgatori, con la sola perdurante eccezione rappresentata dai siti di rating, ove anche le migliori birre di questo stile ma anche di altri, come ad esempio le English Bitter, continuano ad essere snobbate e trascurate”. Per quanto concerne un sottostile nazionale, il fondatore del Birrificio Italiano prosegue: “credo che l’uso del dry hopping sia ormai veramente distintivo della scuola italiana in fatto di Pils, con i connessi problemi di conservazione e freschezza perché sono, se possibile, da trattare con ancora più cura e delicatezza e da bere ancora più giovani delle classiche tedesche o boeme. Posso però dire che a mio giudizio la Tipopils rimane comunque una “Tipo”, qualcosa di assolutamente unico e sui generis come quando è nata perché le altre italiane sono caratterizzate da una luppolatura più imponente e aggressiva. Se devo fare un paragone con le mie produzioni molte sembrano più giocare sul terreno della Extra Hop che su quello della Tipo”. Arioli conclude tracciando una necessaria demarcazione: “per me parlare di stili ha ancora un senso, specie nelle Pils e a mio giudizio una bassa fermentazione con un dry hopping di luppoli americani non può essere chiamata Pils ed è il motivo per cui non ospito questo genere di birre al Pils Pride: chiamiamole India Pale Lager, Italian Hoppy Lager se vogliamo farle nostre ma non Pils, per favore!”. Esattamente sulla stessa linea è Giovanni Campari, birraio e fondatore del Birrificio del Ducato, che conferma: “sono stato formato come birraio al Birrificio Italiano e Tipopils è stata la birra che mi ha fatto vedere le basse fermentazioni da un altro punto di vista. Tuttavia la Via Emilia si è ispirata più alla Extra Hop che alla Tipopils, forse ad un compromesso tra le due. Infatti usiamo fiori di Tettnanger nell’hop back (da quando abbiamo l’impianto nuovo) mentre gli altri luppoli sono Perle, Spalter Select e Saphir”. E alla domanda sull’opportunità di poter individuare un sottostile italiano dichiara: “decisamente sì, quello che contraddistingue le Italian-style Pilsner è l’uso del dry hopping rigorosamente con luppoli nobili tedeschi o cechi e il fatto di non essere filtrate, ragion per cui sarebbe più corretto definirle “Italian Kellerpils”.
Josif Vezzoli, birraio di Birra Elvo, basa invece il suo ragionamento più sulle materie prime: “la mia Pils nasce dall’esigenza e dalla volontà di valorizzare l’acqua eccezionalmente leggera di Graglia ed è su di essa che ho sviluppato un blend di luppoli tedeschi, essenzialmente Tettnanger e Mittelfruh, costruito per unire i sentori erbacei e terrosi a quelli più floreali e fruttati. Prediligo il late hopping rispetto al dry hopping perché credo si sposi meglio con la parte maltata, creando un unicum gustativo che renda quasi inscindibili gli ingredienti”. Riguardo all’originalità italiana il birraio di Elvo aggiunge: “personalmente sono partito dalla tecnica tradizionale tedesca ma credo di essere andato oltre, rendendo più persistente e interessante la componente amara. Certamente le più buone Pils che ho assaggiato negli ultimi anni sono italiane e partecipando a concorsi internazionali ho capito che la mia come quelle di altri colleghi non sono considerate fedeli ai canoni tradizionali delle German e delle Bohemian, credo proprio che con dry hopping e late hopping spinti abbiamo creato veramente un modo unico di interpretare questo stile dando molte varianti diverse tutte però incentrate sulla valorizzazione della parte amaricante aromatica, non solo per fare una Pils dissetante ma per emozionare maggiormente chi le beve. Non vedo l’ora di cominciare a lavorare sui primi luppoli da aroma autoctoni italiani, per creare un blend che caratterizzi la prima Pils al 100% italiana”.
Alessio Gatti, birraio del birrificio Canediguerra, ha invece una posizione più scettica circa l’esigenza di individuare un sottostile italiano: “ormai il dry hopping sulle Pils non è peculiarità solo italiana e non credo che adattare uno stile con quasi due secoli di storia ai gusti locali di un Paese diverso sia sufficiente per creare un sottostile” ma aggiunge: “però è chiaro che ogni reinterpretazione va a scostarsi, di poco o molto, dai veri canoni stilistici. La mia Bohemian nasce dal grande amore che nutro per il Saaz, un luppolo fantastico ma anche difficile da usare bene, e non è certamente realizzata in stile ceco perché la gestione dei malti è diversa e i 4 grammi litro in late hopping che uso non hanno riscontri nel Paese d’origine, però non è nemmeno una Italian Pils perché dopo le primissime cotte ho abbandonato il dry hopping preferendo un massiccio late hopping”. Il birrario di Canediguerra chiude poi riflettendo sullo iato perennemente esistente tra teoria e prassi quotidiana, tra “lo stile” come idea platonica e la sua incarnazione quotidiana sempre mutevole: “mi rendo conto di contraddirmi un po’: da un lato amo gli stili classici e credo sia giusto e opportuno rispettarli, d’altro canto nel mio lavoro di birraio non faccio altro che piegarli in direzione di ciò che più piace a me, vorrei enunciarti una posizione più ferma e coerente ma sarebbe una menzogna rispetto a ciò che sento e vivo. Vero è che le nostre Pils hanno alcuni tratti che le rendono ben riconoscibili da quelle di altre nazioni e che produciamo birre eccellenti in questo campo.”
Più ancora legati alla tradizione sono Mauro Salaorni e Christian Superbi di Birra Mastino, che sostengono: “siamo convinti che le classiche boeme e tedesche siano ancora in assoluto il riferimento per fare Pils e quindi anche nel nostro caso abbiamo voluto fortemente seguire tali caratteristiche. Nel caso della 1291, infatti, l’aroma marcato di luppolo è voluto proprio per non smentire l’ispirazione boema, così come un altro omaggio alla tradizione ceca è il processo di decozione, finalizzato a dare anche una nota leggermente più maltata facendo emergere il caratteristico sapore di crosta di pane”. Anche loro però concedono: “l’acqua per la nostra Pils viene trattata per avvicinarci il più possibile alle caratteristiche di quella originaria di Plžen, ma senza esagerare, per non perdere il filo conduttore che accomuna tutte le altre nostre birre. Va da sé che con questo dettaglio ci troviamo già in territorio di interpretazione italiana, d’altro canto, se vogliamo risalire alle nostre “muse” ispiratrici, oltre alle birre assaggiate nei numerosi viaggi in Repubblica Ceca fatti in gioventù, dobbiamo assolutamente citare la Tipopils. Certamente la grande crescita qualitativa mostrata in questo ambito fa sperare che a breve si possa veramente codificare un modo tutto italiano di fare Pils, anche se al momento, a nostro giudizio, non ci si è ancora arrivati.”
Cercando di tirare le somme, possiamo quindi parlare di un vero e proprio sottostile Italian Pils? A prescindere dalle sottigliezze del BJCP e dalla conseguente necessità di trovare un congruo numero di birre molto vicine tra loro per O.G e IBU e considerando anche che, nel futuro, a mio giudizio, si parlerà sempre più di macrotipologie che di stili e anche i principali concorsi birrari dovranno probabilmente, nel medio-lungo periodo, riorganizzare le proprie categorie, direi che si può sicuramente trovare un tratto identificativo comune nella più incisiva ed emozionante aromaticità luppolata rispetto alla media degli esemplari reperibili in Germania, Austria e Repubblica Ceca. Un’altra certezza è l’elevato numero di eccellenze che possiamo riscontrare in questo stile. Oltre alle tante già citate in precedenza non possiamo dimenticare la Pils di Carrobiolo, la 40-50-40 di Rurale con la sua inconfondibile nota agrumata, la Mu Pils di Mukkeller, a sua volta decisamente spinta sulla luppolatura, le più canoniche e classiche Gast Pils di Gastaldia e Philippe di BiRen, con quest’ultima che è forse la più bavarese esistente in Italia, e le ultime arrivate come la Ritual Pils di Ritual Lab, già diventata un must per gli appassionati e la originalissima Too Minds di No Tomorrow, tutta giocata sulle note fruttate delle nuove varietà di luppolo da aroma dell’Hallertau. Due produzioni che mi hanno colpito in positivo di recente e che si situano decisamente nel solco della via italiana alle Pils sono la Gil del biellese Beer In e la Testa di Malto del valtellinese Legnone. Il sempre più ricco catalogo delle ottime Pils di casa nostra ci riporta a quello che, secondo me, è il nocciolo della questione: la necessità di dare ad esse la giusta considerazione, sia da parte dei divulgatori e degli opinion leader che, ma spesso le due categorie coincidono, da parte dei publican specializzati in birre artigianali. Si è sicuramente parlato troppo poco di Pils nell’ambito del movimento artigianale italiano, dando maggiore spazio a ingredienti inconsueti e ideazioni fantasiose che possono sicuramente stuzzicare la fantasia del neofita come del beer geek ma che, sul lungo periodo, non hanno certo la fruibilità di una Pils e che quindi non portano ad un significativo incremento dei consumi di prodotti artigianali a scapito di quelli industriali. Si è probabilmente spinto troppo poco le Pils italiane nei locali specializzati, percependo talvolta la via di spillatura ad essa dedicata come un semplice dazio da pagare agli inguaribili “inesperti” che chiedono sempre e solo “una birra normale” e non dedicando ad esse le attenzioni e gli sforzi in materia di comunicazione e creazioni di eventi che si sono profusi per altre specialità come le IPA nelle loro sempre nuove ed estreme variazioni o le sour. Le Italian Pils, divengano o meno uno stile ufficialmente codificato, esistono, sono forse le migliori interpretazioni al mondo dello stile e possono essere il volano sia per conquistare nuovi bevitori alla causa della birra artigianale e di qualità che un’eccellenza da esibire con orgoglio agli appassionati di tutto il globo.