Birrificio Carrobiolo

C’era una volta in quel di Monza un piccolo e affascinante birrificio all’interno di un antico monastero di frati Barnabiti. Per essere esatti occupava una piccola parte dell’ala più antica, risalente al basso medioevo. Le radici storiche dei devoti a San Paolo, risalgono agli albori dell’odierna tradizione birraria, quando i monaci e le badesse si preoccupavano di produrre birre per il proprio sostentamento, per il commercio e per i pellegrini. Non sappiamo bene se in quel convento a Monza si producesse birra, probabilmente no, ma sappiamo per certo che nel 2008 Pietro Fontana, educatore nel centro del convento e homebrewer per hobby, convinse i frati a lanciarsi in questa attività.

Nacque così il Piccolo Opificio Brassicolo Carrobiolo Fermentum, un nome impegnativo e complicato, che tuttora molti sbagliano e facilmente troviamo Piccolo Birrificio Brassicolo, tanto che capita che Pietro ti corregga anche quando pronunci giusto, tanto per essere sicuro. Ricordo bene il primo incontro con Pietro e padre Davide Brasca, il primo in abiti da lavoro, capelli lunghi e barba incolta, il secondo in jeans e sigaro in bocca. Ovviamente confusi i ruoli e Pietro con una frase «sono padre sì, ma di famiglia» mi svelò la realtà. Il piglio brianzolo, un po’ strafottente, cela a prima vista una persona splendida, di grande cuore, un eccellente birraio sia per gusto sia per capacità tecniche, un imprenditore caparbio, perspicace e capace. Molto aderente al concetto monastico, il progetto nacque con tre sole referenze distinguibili per il differente colore delle etichette (la gialla, la rossa e la bianca) cui si aggiunse, nel nome, un omaggio alla produzione casalinghe, con il rimando all’Original Gravity (la densità iniziale del mosto).

Tre birre che guardavano e rendevano grazie alla tradizione di tre paesi molto diversi tra di loro: una Pils (O.G. 1056 con l’etichetta gialla) a metà strada tra la Boemia e la Germania, una anglofona Brown Ale (O.G. 1048, etichetta rossa) e una belga Tripel (O.G. 1085, etichetta bianca). Nel piccolo laboratorio la produzione massima si attestava sui 250 ettolitri annui, con la complicazione che la cantina dove lasciar riposare le bottiglie era raggiungibile solo attraverso una stretta, ripida e angusta scala. Questo pose la necessità di far crescere il birrificio sfruttando la splendida cornice di una chiesa non più utilizzata all’interno delle mura del convento. Una volta disegnato il progetto e fatti i preventivi, i monaci si tirarono indietro e si mostrarono sempre più freddi nei confronti dell’attività. Un vero peccato perché nei piani iniziali era previsto – e fortemente voluto da Pietro – che il birrificio diventasse un elemento integrato nel sistema del convento, un punto di passaggio per i ragazzi, dove imparare un mestiere, rendersi utili e completare il percorso verso l’età adulta e l’indipendenza.

Peccato anche perché ha dimostrato di funzionare: Andrea Cavuoto, entrato in comunità da ragazzino, è oggi un ragazzo indipendente dopo una gavetta in birrificio alla quale non si è mai sottratto, partendo da qualche lavoretto da elettricista, e ora è una delle colonne portanti del reparto produzione. Già perché i rapporti meno distesi e amichevoli con i frati non hanno scoraggiato Pietro, ma anzi l’hanno spinto, dopo estenuanti trattative e proposte al convento, a trovare nuovi soci, Massimo e Diego, per cercare nuovi sbocchi. E il sogno nel settembre 2014 si è consacrato, anziché in una chiesa, in un vecchio opificio (tutto torna) in Piazza Indipendenza sempre a Monza. Produzione su un solo piano con grande spazio – ripensandoci e riguardandolo oggi meglio dire col giusto spazio – a disposizione, e un grande locale di mescita, da circa 160 posti, con cucina, dove le birre del Carrobiolo godono del giusto altare, spillate da un affascinante bancone in rame che si protende verso l’ingresso, accogliendo così i clienti.

E chissà se oggi i padri Barnabiti si sono resi conto di quanto hanno perso, non solo per la qualità dei prodotti, il successo del locale e quanto il Carrobiolo è oggi legato a Monza e integrato al suo tessuto sociale, ma considerando anche e soprattutto che Pietro e i suoi nuovi soci perseguono ancora gli ideali fondanti: pur non essendo una cooperativa sociale il birrificio ha assunto da pochi mesi anche Luca Ghidini, un ragazzo diversamente abile, che grazie a un lungo percorso di stage e borse lavoro curato insieme ai servizi sociali del comune di Monza, oggi si occupa di preparare gli ordini delle bottiglie per i clienti. Certo non è stato facile per Pietro organizzare il tutto, e credo non sia facile ancora oggi: partire con un nuovo impianto, dover pensare a sistemare le birre per i nuovi volumi, crearne di nuove per il locale, tenere sotto controllo tutti i lavori e intanto inventarsi un nuovo mestiere, per lanciare il pub e far sì che funzionasse. A distanza di quasi tre anni possiamo dire anzitutto che è sopravvissuto, fisicamente ed economicamente, e soprattutto che ci è riuscito in pieno! E il suo motto “Pensa globale, bevi locale” oggi ha trovato la sua realizzazione massima, con consumi che al pub aumentano costantemente e dove Pietro ci mette la faccia ogni giorno, tanto attraverso le birre, quanto al locale, dove è spesso presente.

Le birre

Ma veniamo alle birre. Le tre birre iniziali, sono ancora lì, in forma smagliante, e sono state affiancate da nuove produzioni, da altre birre stagionali, da produzioni occasionali (ma mai esperimenti fini a sé stessi, le birre sono sempre di alto livello): la Pils (5,4% Vol.) affinata negli anni, ma di base sempre lei, è un perfetto equilibrio tra malto e luppolo, tra dolce e amaro; la Brown Ale, forse quella che più ha fatto penare all’inizio, ha trovato da anni la sua forma compiuta e i suoi 4,9% Vol., i suoi aromi di malto e terrosi di luppolo si esaltano nel servizio a pompa inglese al pub; la Tripel (9% Vol.) è cambiata molto, ora non è più rifermentata con il miele ed è un blend di lieviti, tra cui un Saison, che donano fruttato e secchezza a una birra forse meno in stile ma ancora più facile da bere rispetto alla versione iniziale.

Già da anni in catalogo la quarta birra, stagionale, è l’invernale O.G. 1111 (una strong ale inglese, un po’ Old Ale, un po’ Barley Wine, con una parte di malto torbato), possente e robusta, da ben 13% Vol., corposa, con note dei malti che giocano sulle tostature e sulla dolcezza, ben bilanciata da un piacevole torbato. L’estro di Pietro, ora coadiuvato in produzione dallo schivo ma molto preparato Matteo Bonfanti, ha potuto esprimersi, a volte raggiungendo anche livelli di guardia (mia opinione personale sia chiaro, Pietro è ovviamente di altro avviso) come con la ITA (Italian Tomato Ale) una Keller chiara di ispirazione francone con l’uso, che in Germania sarebbe più o meno da galera, di rosmarino, basilico e… pomodoro! Sia chiaro che non è impazzito e che l’idea era di lanciarla come abbinamento alla pizza, che però non ha, ancora per lo meno, visto spazio tra le proposte culinarie del pub; in compenso la birra è stata tranquillamente apprezzata dai clienti. Le altre birre pensate per il pub sono state la Keller (4,6% Vol., rigorosamente senza pomodoro), che richiama Bamberga e i suoi dintorni in forma più snella e beverina, la Black Lager Hallertau da 4.9% Vol. che guarda alle scure e beverine Schwarz tedesche, con una luppolatura più generosa e la APA, 4,8% Vol., chiaramente ispirata alle American Pale Ale, con luppoli della Yakima Valley, piacevolmente secca così da lasciare un finale correttamente amaro. Per l’estate fa capolino l’Estiva, una summer ale ben luppolata e bilanciata da 5% Vol., con intriganti profumi tropicali e agrumati. La Senatrice Cappelli è spirata alle blanche belghe, 4,6% Vol., speziata con bucce di pompia sarda e poco coriandolo, è prodotta con un importante 50% di grando duro Senatore Cappelli, da cui il nome. Da un vecchio pallino di Pietro, l’uso del farro di coltivazione locale, arriva invece la Weisse al farro, una weizen bavarese da 4,7% Vol., da cui si discosta per l’uso del farro a crudo, cioè non maltato. Tra le varie di ispirazione tedesca che si alternano alle spine del pub da segnalare anche la Rauch, una affumicata rigorosamente a bassa fermentazione. La Ginger Ale (3,8% vol.) è invece un’ambrata con aggiunta di Zenzero fresco in fermentazione. La “Gaballus” Berliner Weisse guarda invece alle taglienti e lattiche birre quasi scomparse in Germania, leggerissima di corpo e di alcol (3,3% Vol.) La Coffee Brett è uno dei capolavori della casa, si tratta di una Imperial Stout da 11% Vol. con aggiunta di caffè, tanto caffè che apporta anche un’acidità discreta, e Brettanomyceti. Il carattere è evidente, ma il suo grado alcolico scompare in bocca, lasciando spazio ad aromi e profumi di caffè e esteri e fenolici del Brett, possenti e notevoli, ciononostante è pericolosamente beverina. Disponibile solo in bottile da 37,5 cl. Dalla collaborazione con Simone Ghiro del birrificio Gambolò è nata la AmanIPA Falloides, una doble IPA di chiara ispirazione nord americana, che deve il suo nome all’amaro (150 IBU), davvero notevole, grazie a una generosissima luppolatura. Una delle ultime nate è un’interpretazione delle IGA (Mo’scanzati Azzo da 5,6% Vol.) che nasce grazie all’aggiunta, in fermentazione, di uva Moscato di Scanzo Rosciate. Tra poco vedrà la luce una nuova birra, per la primavera, sempre su base Keller, con qualche aggiunta dal mondo vegetale, ma Pietro non vuole sbottonarsi di più: finché non assaggia non metterà in commercio, perciò. Certo che dopo la birra al pomodoro suona un po’ come minaccia, almeno nei miei confronti!

Birra in botte

Nel vecchio birrificio, in piazza del Carrobiolo, per un paio di anni, è rimasto attivo il vecchio impianto, ora venduto. Il birrificio ha chiesto il permesso di utilizzare quello spazio come “bottaia”, per dedicare uno spazio maggiore alle sperimentazioni di birre ripassate in legno. La prima birra in botte fu la Pedro Fontenez, nome che suggerii io visto che si trattava della Tripel di casa ripassata in una botte in cui era stato affinato uno sherry Pedro Ximénez (uva spagnola, tipica di Montilla Moriles, non lontano da Malaga). Ne nacque una birra rotonda e piena, in cui le note dolci dell’uva spagnola si sposavano alla perfezione con la struttura della Tripel. La Pedro Fontenez cambia di produzione in produzione a seconda delle botti utilizzate. Il secondo esperimento è stato un passaggio in botte di Marsala. Da botti già utilizzate da nobili vini italiani nasce Una botte e via, ancora una volta con la Tripel che è stata lasciata a riposare in botti utilizzate prima per, nell’ordine, Amarone della Valpolicella, Barolo e l’ultimo lotto da Morellino di Scansano. Dal matrimonio tra una botte di grappa Berta e una Imperial Stout è nata invece la Porcini Imperial Stout, con aggiunta, direttamente in botte, di funghi porcini essicati. Quando le nespole, o meglio il meteo lo consente, Pietro produce anche la Nespolik aggiungendo le nespole giapponesi, in parte raccolte direttamente da una sua pianta. Purtroppo negli ultimi due anni la troppa pioggia nel periodo appena prima della maturazione finale del frutto ha impedito il raccolto e quindi la produzione di birra. La Spada nella Botte fu invece una Pils maturata in botti di grappa, dove il corpo esile della Pils esaltava le note calde del legno, in modo da sembrare molto più alcolica e più secca di quanto lo fosse in realtà.

Informazioni e contatti

Piazza Indipendenza 1
Monza (MB)
Telefono 039.325100
posta@birradelcarrobiolo.it
birradelcarrobiolo.it

Anno di inizio produzione: 2008
Capacità produttiva impianto (hl a cotta): 10
Capacità cantina (hl): 230 hl
Produzione annua (hl): 1200 hl
Confezionamento: 10% bottiglie – 90% fusti
Fondatore: Pietro Fontana
Birrai: Pietro Fontana e Matteo Bonfanti
Tipologia di locale: Brewpub


Le birre del Birrificio Carrobiolo degustate:

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