Le birre del cuore: Rochefort 10
Tra le birrerie trappiste è quella con la quale ho avuto più stretti rapporti è in realtà, paradossalmente, la più impenetrabile. Non alludo, come qualcuno potrebbe pensare, a Westvleteren, ma bensì a Rochefort. La prima almeno ha il famoso caffè In de Vrede dove poter assaggiare ed acquistare tutta le loro straordinarie birre e dal quale si può direttamente accedere al Claustrum per saperne di più sulla vita dei frati. A Westvleteren, non vorrei deludere i lettori, il birrificio vero e proprio che ho visitato due volte, è senza dubbio il più tecnologico tra quelli delle birrerie trappiste con Fratello Joris che alle cinque del mattino schiaccia il bottone del computer, dà inizio alla cotta e va a pregare. La sala cottura dominata dall’acciaio, nulla a che fare con quelle di Rochefort o di Orval in cui troneggia il rame. Inoltre, anche tutte le altre trappiste belghe, Westmalle, Achel, Orval e Chimay, hanno un locale di riferimento eccetto proprio Rochefort. Tralascio le complete e dettagliate informazioni che diffusamente si trovano sulla storia dell’Abbazia di Saint-Remy e più specificatamente del birrificio e delle birre prodotte, ricette comprese, per parlarvi invece, tramite alcuni dei mille aneddoti di vita vissuta, del mio amore verso quel capolavoro assoluto che porta il nome di Rochefort 10.
La prima volta che l’assaggiai, inizio anni ottanta, fu grazie a un rubicondo signore di campagna in visita a Bruxelles che, alla Bécasse di Rue Tabora, all’epoca feudo della famiglia Steppé, chiese al cameriere vestito da frate di consigliarli una birra. La proposta di una trappista fu accolta con curiosità dal corpulento avventore che bevve con un tale gusto e con entusiastici commenti a voce alta, che ne rimasi così colpito tanto che ordinai anch’io, dopo aver svuotato la brocca di lambic doux De Neve, la stessa birra scura che scoprii così essere la Rochefort 10. Mi onoro di essere amico da molti anni di Gumer Santos, diacono e grande mastro birraio di origine spagnola che mi accoglie, sia da solo che quando porto un mio gruppo, con calore ed affetto. Ricordo con particolare piacere la sua visita come ospite d’onore al Salone del Gusto di Torino, ottobre 2004, culminata con un indimenticabile laboratorio incentrato su tutte le trappiste del Belgio, iniziato in forte ritardo perché nella sala adiacente doveva entrare Carlo d’Inghilterra per simulare un assaggio di real ales. Col suo sorriso furbetto non si sa mai quando dica la verità nel rispondere alle FAQ di chi, ad esempio, voglia sapere perché non sia indicato il coriandolo come ingrediente, presente in tutte e tre le Rochefort, 6, 8 e 10. Ho avuto in cantina una magnum natalizia di Rochefort 8, con tanto di foglia verde con vischio rosso sulla basica etichetta, comprata a prezzo bassissimo in un negozio di gastronomia a pochi km dal birrificio, mentre Gumer mi assicurava che non avessero mai fatto imbottigliato nelle magnum.
Se poi aggiungiamo alle palle pure le leggende metropolitane, ecco che signore e signori, siamo davvero in Belgio! Un giorno, all’improvviso, giunse la notizia che il proprietario del piccolo allevamento di polli di fianco all’abbazia, avesse intenzione, tramite nuovi soci, di allargarsi e decuplicare se non addirittura centuplicare il numero dei volatili, con il rischio di inquinare la falda acquifera da cui attingeva il birrificio. Alcuni pensavano già di costituire un task force per andare ad eliminare i poveri pennuti ma, ben presto, si seppe che si trattava dell’ennesima bufala belga. Invece non fu certo una bufala, l’incendio che colpì l’abbazia a fine dicembre 2010. Per fortuna i danni furono meno ingenti di quanto si temesse subito dopo ma gli importuni commenti, tipo “grosso incendio distrugge l’abbazia di Rochefort ma per fortuna la birreria ne è uscita indenne” apparsi subito dopo in rete, quindi quando ancora non si sapeva se locali interni, preziosa biblioteca in primis, fossero andati perduti, indispettirono non poco i monaci.
Anche un’altra notizia arrivatami da autorevole fonte locale suscitò preoccupazione: dato il crescente successo e conseguente incremento dell’esportazione si vociferava che Gumer fosse stato spinto ad accelerare il processo di produzione tramite step più ravvicinati. Questa variazione non si sarebbe avvertita nel breve periodo ma probabilmente dopo lunghe maturazioni. Non gli ho mai chiesto conferma, visto che sarebbe stato inutile.
Sono venuto a sapere che, di recente, il mitico padre Pierre è andato in pensione. Assume allora ancor più valore emotivo per me ricordare l’ultima volta in cui abbiamo bevuto insieme dentro le mura dell’Abbazia. Non la 6, ritenuta la birra della sete, né la 8 la birra per il cibo (eccezionale la salsa “De Heeren van Liedekerke” metà Rochefort 8 e metà Roquefort) ma la 10 naturalmente per la meditazione. Era metà pomeriggio e dopo quattro, sottolineo quattro, Rochefort 10 gli chiesi: “ma ti è permesso bere così?”. Lui alzando lo sguardo estatico verso il cielo, candidamente rispose: “don de Dieu!”.
La Rochefort 10
Birra che ti ammalia sin dalla coppa nella quale deve essere versata lentamente ma con fermezza. Sarà il colore simile al bruno Van Dyck con riflessi che ricordano il rosso d’alizarina. Sarebbe stato più divertente se avessi detto color tonaca di frate con riflessi rosso cardinale, ma siccome dipingo conosco le tonalità dei colori. Sarà la schiuma cremosa dal colore più vicino al “bisque” che al beige come molti la descrivono. Appena l’avvicini al naso ti parte un “trip” che ti porta nella campagna inglese a far merenda con un plumcake o davanti al camino, in inverno, con un Christmas Pudding. Cacao amaro, frutta secca, cedro candito con note di fico e prugna cotta da non voler smettere di annusare. Al palato convivono sensazioni di calore, pienezza, ma anche una di secchezza inaspettata che prelude ad un finale di liquirizia in legno e che regalano grande complessità rendendo ogni volta unica questa esaltante esperienza.