Lambic originale o Lambic falso?
Le birre a fermentazione spontanea non sono mai state così di moda. In passato considerate birre difficili, troppo impegnative e apprezzate solo da una piccolissima cerchia di super nerd, oggi Lambic, Gueuze e Kriek sono conosciuti – pur rimanendo, evidentemente, un prodotto di nicchia, per definizione – da un numero sempre maggiore di consumatori. Il Musée Bruxellois de la Gueuze (Brasserie Cantillon) ospita quasi 50000 visitatori all’anno, alle fermentazioni spontanee sono dedicati eventi di respiro mondiale, come la Nacht van de Grote Dorst, il Dag van de Lambiek e Dag van de Kriek o ancora lo Zwanze Day, che coinvolge una sessantina di pub (ben 6 sono in Italia), in 18 paesi al mondo. Al lambic sono dedicati alcuni importanti locali, come il Moederlambic di Bruxelles o il Lambiczoon di Milano. La presenza delle fermentazioni spontanee (e miste) nelle manifestazioni birrarie è in costante crescita, tanto che nel 2013 è nato, qui in Italia e dobbiamo esserne orgogliosi, l’Arrogant Sour Festival, il primo e più grande festival europeo sul tema.
Il primo approccio con i lambic non è sempre facilissimo e non è automatico che piacciano immediatamente, ma certamente oggi è molto più facile – rispetto anche soltanto ad una decina di anni fa – far apprezzare una birra a fermentazione spontanea, anche a chi ancora non le conosce. La crescita del movimento birrario ha certamente un suo ruolo, favorendo la diffusione della cultura, supportata da una maggiore facilità di incontro (oggi è molto meno difficile trovare una gueuze, se la si cerca nei posti giusti). Probabilmente ha aiutato anche la naturale, fisiologica “evoluzione” dei gusti in chi si avvicina con la giusta curiosità allo straordinario mondo delle birre (il gusto dolce è innato, l’amaro e l’acido invece sono gusti “culturali”, che bisogna imparare ad apprezzare). Il successo commerciale – soprattutto all’estero, cioè fuori dal nativo Belgio – dei lambic è sotto gli occhi di tutti. Semplicemente non esiste abbastanza prodotto per soddisfare tutte le richieste che arrivano dai locali specializzati, nonostante un prezzo d’acquisto non certo basso e nonostante il fatto che si tratti comunque di un prodotto molto particolare. Eppure oggi non è così difficile – nei migliori locali, in tutto il mondo – trovare una gueuze o una kriek, non solo in bottiglia, ma anche alla spina, metodo di servizio che rende ovviamente più semplice l’assaggio e quindi la conoscenza.
Eppure, nonostante questo successo planetario, nonostante l’interesse e nonostante la diffusa passione per il mondo dei lambic, la situazione è tutt’altro che incoraggiante. Perché ancora oggi, se ci si accomoda in uno dei tanti café del Belgio e si sfoglia l’immancabile carta delle birre, vedremo indicato semplicemente Geuze, Kriek. Senza alcuna indicazione di produttore, come se il nome da solo fosse sufficiente (evidentemente per la maggior parte dei consumatori lo è). Provate ad ordinarle e con ottima probabilità vi arriveranno birre con quell’indicazione sull’etichetta, ma che nulla hanno a che vedere coi prodotti tradizionali, autentici. Birre fermentate in acciaio, edulcorate, filtrate, pastorizzate. Birre in cui l’estrema dolcezza sovrasta (in modo davvero pacchiano) la leggera acidità, che invece dovrebbe essere la cifra gustativa dello stile. Birre che però, evidentemente, rappresentano l’idea stereotipata, al singolare, di Gueuze e Kriek, almeno per una fetta importante di consumatori belgi. E in nessun altro caso l’errore è più grave. Perché stappare una birra a fermentazione spontanea significa – per i prodotti autentici – aprire una finestra sulla storia della birra, significa gustare un prodotto ancestrale, in cui la natura, con i suoi giusti tempi, è in grado di regalarci un’eleganza e una complessità uniche. Non c’è nulla, nel mondo della birra, che dica meglio del lambic di come il tempo, il rispetto delle tradizioni e la pazienza siano fattori importantissimi, imprescindibili. Per poter assaggiare una birra a fermentazione spontanea bisogna aspettare almeno un anno, attendere che le naturali variazioni della temperatura della cantina di fermentazione permettano il susseguirsi di tutte le trasformazioni microbiologiche del tutto “spontanee”, perché mai forzate dal birraio, che non inocula nulla, come invece avviene per le moderne e veloci lager e ale. Qui invece enterobatteri, saccaromiceti, batteri acetici, batteri lattici, brettanomiceti hanno bisogno di tempo e di pazienza, ma poi regalano un prodotto stupendo per profondità, complessità e carattere, in una parola: unico. Ogni cantina ha il proprio “timbro”, un lambic non è replicabile, non è industrializzabile, ma è davvero “naturale”, nel senso etimologico del termine.
Durante l’ultimo Salone del Gusto abbiamo proposto un Laboratorio dal titolo “Lambic vrai ou faux” una degustazione che facciamo, da qualche tempo, all’interno del Master of Food, nel secondo livello dedicato al Belgio. Abbiamo fatto assaggiare Gueuze e Kriek “vere e false”, assieme, allo stesso tavolo, nella stessa degustazione. Tutte bottiglie che riportano l’indicazione “Lambic” sull’etichetta, ma sono evidentemente prodotti che non possono assolutamente stare nella stessa categoria. Non tanto per motivi stilistici (ho sempre pensato che il BJCP vada preso con molta, molta laicità), ma piuttosto per una questione di rispetto. Non si può scrivere “Lambic” su una bottiglia che non contiene (solo) fermentazione spontanea. Non è rispettoso nei confronti del consumatore, ma non lo è – soprattutto – nei confronti di quei produttori che si ostinano ad obbedire alle regole naturali, senza cedere alle “scorciatoie” tecnologiche e senza snaturare la vera identità di un prodotto (esistono molte altre birre dolci, perché si deve per forza edulcorare una kriek, che nasce invece acida?!?).
In Belgio ci sono un paio di produttori (Cantillon, Drie Fonteinen) e un piccolo gruppo di assemblatori (De Cam, Hanssens, Oud Beersel, Tilquin) che fanno cose egregie, prodotti tradizionali che – citando Kuaska, Principe del Pajottenland – andrebbero inserirti nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’Unesco. Tutti gli altri si ostinano a produrre birre addolcite, edulcorate, indecenti. Magari, per complicare le cose, producendo *anche* una piccola parte di prodotto autentico (a volte anche molto buono), oppure unendosi tutti assieme, veri e falsi, nella stessa associazione, Horal. Non bastano le protezioni della Comunità Europea, che inseriscono termini come Vieille Kriek, Vieille Kriek-Lambic, Vieille Framboise-Lambic, Vieux Fruit-Lambic, Kriek, Kriek-Lambic, Framboise-Lambic, Fruit-Lambic, Gueuze Vieille, Gueuze-Lambic Vieille, Lambic Vieux, Lambic, Gueuze-Lambic, Gueuze nel «Registro delle specialità tradizionali garantite». Anzi, a leggere l’elenco l’impressione è che si crei – se possibile – ancora maggiore confusione. La verità è che il termine “Lambic” non dovrebbe proprio comparire sulle birre edulcorate, filtrate, addolcite, pastorizzate. Perché è un controsenso. Il lambic è un prodotto straordinario, che deve la sua complessità ad un procedimento produttivo ancestrale, che obbligatoriamente deve rispettare il tempo, la natura e il territorio. Cercare di rendere più “moderna” la produzione, fermentando in acciaio, inserendo chips di legno, forzando la saturazione, pastorizzando, significa semplicemente fare un’altra cosa. Che andrebbe chiamata, ad esempio, Belgian Sweet Cherry Beer, non Kriek Lambic. Se così fosse non avrei – personalmente – alcun problema. Anzi, devo ammettere che trovo alcuni “falsi” nemmeno così sgradevoli, possono essere legittimi, ma deve essere chiaro che non si sta parlando della stessa cosa, i consumatori devono pretendere chiarezza.
Lo scorso novembre, a Bruxelles, all’interno della manifestazione Vini Birre Ribelli, è stato annunciato il Presidio Slow Food del Lambic tradizionale. Un primo passo, necessario, ma assolutamente non sufficiente, per proteggere i Lambic, le Gueuze e le Kriek tradizionali, che sono un tesoro della cultura brassicola belga (e mondiale). Andrebbero infatti tutelati da una legge molto chiara, che definisca, senza mezzi termini, il Lambic come birra a fermentazione spontanea, prodotta nella stagione fredda, con una miscela di malto d’orzo e frumento crudo, con luppolo in fiori invecchiato, con raffreddamento del mosto naturale nel coolship, senza nessun inoculo di lievito o altri microorganismi, fermentata a lungo in legno, senza controllo della temperatura. Gueuze e Kriek devono essere normate allo stesso modo, come naturali evoluzioni del Lambic, quindi nessuna aggiunta di edulcoranti o sciroppi, ma solo frutta intera, “naso” negli assemblaggi e rifermentazione in bottiglia. Alcuni produttori hanno dimostrato come questa possa essere la strada giusta, che si può essere tradizionali e rispettosi del processo naturale, pur (o forse, proprio per questo) essendo moderni e raccogliendo il meritato successo commerciale. Sarà molto difficile, per non dire impossibile, che altre aziende, che producono centinaia di migliaia di ettolitri all’anno, possano fare la stessa cosa, ma comunque credo sia una battaglia che valga la pena provare a combattere.
In questo articolo non vengono menzionati i produttori di “finti” lambic, ma quando vengono menzionati i produttori “veri” ci si è dimenticati di Boon!! E forse anche di altri ancor più piccoli produttori e assemblatori. Così sembra che i non citati finiscano nella categoria “finti” o sbaglio?
A dire il vero la cosa che rende il tutto più confusionario è il fatto che gli assemblatori fanno anche uso di mosto prodotto dai grossi produttori come Lindemans, Timmermans o Girardin che sono anche tra i principali produttori di lambic addizionato con zucchero o sciroppi.
Come fa notare l’altro commentatore non viene citato Boon che tiene in piedi la produzione anche di marchi storici che però non esistono più (vedi Moriau).
Il prodotto tradizionale viene distinto con numerose diciture (ad es. “oude”, “a l’ancienne” e simili).
E’ anche innegabile che i produttori riescono a rimanere sul mercato anche grazie alle vendite dei prodotti “meno tradizionali” e quindi a rifornire i piccoli assemblatori tradizionali che mirano ad una nicchia di consumatori più ristretta.
Quindi tutto sommato penso che vada bene così, anzi si spera che l’alta domanda proveniente da oltreoceano non faccia lievitare i prezzi fino a cifre astronomiche!