La magia degli esteri nei Lambic
Gli esteri sono i composti responsabili di molti degli aromi fruttati che siamo abituati a percepire nella frutta e nei fiori. Queste stesse molecole le troviamo frequentemente anche nella birra in quanto vengono prodotte dal lievito durante la fermentazione. In alcuni stili, gli esteri giocano un ruolo secondario di supporto agli aromi sprigionati da malto e luppolo, ma in molti altri diventano assolutamente caratterizzanti nella definizione del bouquet aromatico. Basti pensare alle weizen tedesche, per esempio, dove l’aroma di banana è imprescindibile nel bilanciare le espressioni speziate del lievito; o alle saison belghe, in cui i delicati esteri fruttati fanno da contraltare alle note pepate con aromi di frutta a polpa gialla, limone e agrumi in generale.
Gli esteri si formano dalla combinazione di un alcol con un acido. Nella birra, l’alcol presente in maggiore quantità è l’etanolo (alcol etilico). Tipicamente, dunque, durante la fermentazione si formano gli esteri che derivano dalla combinazione dell’etanolo con gli acidi grassi presenti nel mosto. Questi possono essere prodotti dal lievito durante la fermentazione (es. lattico, acetico) oppure provenire dai malti (es. acido ferulico) e, in alcuni casi meno frequenti, dai luppoli (es. acido isovalerico). Lo spettro aromatico degli esteri dipende quindi dalla varietà degli acidi grassi e degli alcoli presenti nel mosto durante la fermentazione: maggiore la varietà di questi composti in partenza, maggiore quella degli esteri prodotti. Tuttavia, mescolando semplicemente acidi e alcoli non vengono generati esteri fruttati. La reazione che porta alla loro formazione richiede una significativa energia di attivazione che i due reagenti non sono in grado di superare da soli. È qui che entrano in gioco i lieviti, in grado di produrre degli enzimi (le transferasi) che abbassano questa energia di attivazione rendendo possibile la combinazione di alcoli e acidi grassi. Esistono tantissime tipologie di transferasi, ciascuna delle quali facilita la combinazione di alcuni specifici acidi grassi con determinati alcoli. Questo processo, tipico di tutte le birre e in particolare di quelle ad alta fermentazione, dove la produzione di esteri è in genere maggiore, diventa molto interessante quando lo si va ad osservare nella produzione dei lambic. Facciamo dunque qualche passo indietro per contestualizzare questo fenomeno.
Il lambic, e il prodotto dei suoi blend, le gueuze, sono tra i pochi stili birrari che ancora oggi vengono prodotti seguendo tradizioni che risalgono a epoche storiche antichissime. Il processo di produzione che porta all’assemblaggio (blend) di una gueuze, rimasto praticamente invariato nel tempo, è complesso e lungo; si articola in diverse fasi e richiede molta pazienza, abilità degustativa, esperienza e una immensa attenzione ai dettagli. “Le temps ne respecte pas ce qui se fait sans Lui” recita una famosa frase esposta nel birrificio Cantillon, uno dei più famosi produttori di lambic in Belgio. Ovvero: “Il tempo non rispetta ciò che viene fatto senza di Lui”.
Al di là dell’indubbio fascino che questo approccio alla produzione di birra può esercitare sul mondo contemporaneo, sempre alla ricerca dell’ottimizzazione produttiva, il tempo è davvero uno degli ingredienti chiave di cui non si può fare a meno nella produzione di un vero lambic. Non solo per un fattore di coerenza storica, o di integralismo tradizionalista, ma proprio per l’importanza che alcuni processi chimico-fisici rivestono nelle varie fasi di fermentazione e maturazione di questa complessa opera birraria. Tant’è che i birrifici d’oltreoceano che si sono avventurati su questa tortuosa strada non hanno potuto fare a meno di seguire la stessa tradizione, ovvero inoculo spontaneo di lieviti e batteri, lunghi tempi di fermentazione/maturazione e grande attenzione all’attività di blending. Tra i (pochi) birrifici stranieri che si sono lanciati in questa avventura ricordiamo il texano Jester King con il suo Spon (abbreviazione, appunto, della parola spontanueum). Diversi e significativi sono gli effetti chiave che tempo e tradizione inducono sul prodotto finito: tra questi, l’aspetto forse meno considerato in questo contesto è proprio l’esterificazione.
Come ormai quasi tutti sanno, il lambic viene fermentato grazie all’azione di batteri e lieviti selvaggi. Sono centinaia gli appassionati che ogni anno si recano a Bruxelles, nel quartiere di Anderlecht, per visitare il famoso “Musée Bruxellois de la Gueuze” che altro non è che l’impianto produttivo del birrificio Cantillon. Girando per gli angusti e affascinanti locali del birrificio ci si imbatte nella famosa vasca per il raffreddamento, dove il mosto viene lentamente lasciato raffreddare dopo la bollitura. In questa vasca, chiamata “koelschip”, il mosto ancora caldo viene esposto all’aria esterna che penetra nella piccola saletta grazie alle finestre lasciate aperte. In questa fase avviene la magia: il mosto, man mano che si raffredda, assorbe ossigeno dall’aria, attirando contestualmente una serie di microrganismi che si fiondano nel ricco banchetto di zuccheri e nutrienti sapientemente preparati dal birraio. Questo passaggio, insieme alla successiva permanenza nelle botti, sono essenziali per il popolamento del mosto con una microbiota variegata di microrganismi, la cui attività fermentativa si alternerà nel tempo. I composti di scarto prodotti da un determinato batterio o lievito costituiranno una sorta di tela per il lavoro dei microrganismi che si attiveranno successivamente, componendo pian piano l’opera d’arte finale. Questi microrganismi provengono dall’aria che viene assorbita nel mosto in fase di raffreddamento, ma in buona parte risiedono anche all’interno delle botti in cui il mosto viene lasciato riposare per anni.
Ne sono state individuate più di 200, ma possiamo semplificare raggruppandole in quattro macrogruppi (non esaustivi) il cui lavoro si succede più o meno in ordine temporale:
Enterobatteriacee: tra cui alcuni batteri che si trovano tipicamente nel nostro intestino, come ad esempio il famoso Escherichia Coli. Il loro lavoro è maggiormente intenso nel primo mese di fermentazione. Si tratta di batteri che mai vorremmo trovare nelle nostre birre, ma vedremo che il loro lavoro in questa prima fase riveste un ruolo fondamentale nella produzione di lambic.
Saccaromiceti: ovvero i lieviti con cui si fermentano tipicamente le birre ad alta e bassa fermentazione. La loro attività spazia principalmente tra il secondo e il sesto mese di fermentazione.
Pediococchi: si tratta di batteri che, tra le altre cose, conferiscono al lambic la sua caratteristica e pungente acidità. La loro azione scema intorno al terzo mese per lasciare spazio ai Brettanomiceti, ma riprende sul finale.
Brettanomiceti: chiamati colloquialmente anche lieviti selvaggi. I veri protagonisti nella produzione del bouquet aromatico di lambic e gueuze (ma non da soli, come vedremo). Lavorano alternandosi ai Pediococchi, spesso ripulendo i prodotti di scarto degli altri microbi che hanno fermentato prima di loro.
Questa successione di lieviti e batteri, già di per sé inusuale per i tempi moderni e piuttosto stupefacente, diviene particolarmente interessante se la si osserva dal punto di vista del processo di esterificazione. La prima classe di questi organismi, infatti, quella che agisce per prima, è nota per produrre una serie di aromi tutt’altro che piacevoli. Le Enterobatteriacee, infatti, oltre a contribuire, in parte, all’acidificazione del mosto, producono una serie di acidi grassi dagli aromi tutt’altro che gradevoli. L’acido butirrico, per dirne uno, ha un caratteristico odore sgradevole che ricorda il vomito di un bambino o anche l’odore di piedi (alcuni dei batteri che producono questo acido grasso vivono sulla pelle tra le dita dei piedi, appunto). Fortunatamente, questi batteri non sono gli unici a moltiplicarsi e crescere nel mosto del lambic. Nelle fasi successive entrano in gioco Saccaromiceti e Brettanomiceti che per varie fasi prendono il controllo della fermentazione. Questi lieviti iniziano a produrre le transferasi, enzimi in grado di favorire la reazione di esterificazione tra acidi grassi e alcoli. Il già citato acido butirrico, combinandosi con l’etanolo, forma un estere chiamato butirrato di etile che incredibilmente ha un aroma di ananas, tipico di molte gueuze. Sparisce quindi l’odore di vomito e, magicamente, compare un piacevole aroma di ananas. Questo è solo un esempio, poiché sono tantissimi gli acidi che vengono prodotti durante la fermentazione (butirrico, caprilico, caproico, proprionico) e che, combinandosi agli alcoli presenti nel mosto, grazie all’azione enzimatica prodotta dai lieviti, producono aromi piacevoli di mela, fragole, kiwi, banana non matura. Senza gli acidi grassi prodotti nelle prime fasi di fermentazione del lambic, non verrebbe generata una così ampia (e specifica) varietà di esteri fruttati.
È chiaro quindi quanto il rispetto dei tempi e del metodo tradizionale costituisca un aspetto fondamentale nel processo di produzione del lambic. Da un lato è importante per conservare la memoria storico-culturale, ma, volendo guardare la questione con un approccio pragmatico, tempo e metodo rappresentano elementi imprescindibili per ottenere le caratteristiche organolettiche di un prodotto autentico, profondo, complesso ma allo stesso tempo dalla spaventosa bevibilità. Considerando quanto detto fino ad ora, è comprensibile lo scetticismo, diffuso tra gli estimatori di lambic, nei confronti di chi pratica i metodi di acidificazione veloce (fast souring, kettle souring) che si sono diffusi negli ultimi anni. Questi metodi infatti puntano alla produzione di grandi quantità di acido nel minore tempo possibile (in alcuni casi anche poche ore), tagliando nettamente le gambe a tutti i precursori che solo con tempo e pazienza potranno esprimersi nel migliore dei modi.
Ad esser precisi gli acidi grassi sono gli acidi carbossilici a catena lunga, quelli presenti nei trigliceridi, che hanno di norma catene lineari con nessuna, una o più insaturazioni. Gli acidi carbossilici da cui derivano gli esteri hanno catene più corte e possono avere anche altri gruppi funzionali che gli acidi grassi non hanno. Quindi non è corretto chiamare acidi grassi gli acidi carbossilici da cui derivano gli esteri aromatici della frutta e della birra.
Giusto Arturo, nell’introduzione dell’articolo ho chiamato acidi grassi tutti gli acidi, ma è sbagliato. C’è da dire però che gli acidi che intervengono nella produzione degli esteri tipici del lambic sono effettivamente grassi, come butirrico o isovalerico. Corretto?
Sì, ma dipende dal contesto, in chimica difficilmente l’acido butirrico e isovalerico vengono chimati acidi grassi, invece in tecnologia alimentare possono essere chiamati così, magari specificando che si tratta di acidi grassi a catena corta.
Nei lambic sono stati individuati[1] esteri che effettivamente derivano da acidi a catena più lunga, veri e propri acidi grassi in quanto derivano dai “grassi” degli ingredienti di partenza, più precisamente dalle membrane cellulari.
[1]