Alla ricerca di un lievito italiano
In passate occasioni, parlando di materie prime, ci siamo occupati di malto e luppolo. Del malto abbiamo detto essere ingrediente importante, la spina dorsale della birra, e di come non si veda il motivo per cui – pur con i tempi giusti, che non possono essere rapidi – non si possano portare avanti sperimentazioni di coltura di orzo e di maltatura anche in Italia. Del luppolo abbiamo invece ricordato di come le sue varietà siano in grado di caratterizzare fortemente il prodotto finito, e ancora di come lo studio sulla sua coltivazione nel nostro Paese possa offrire una grande opportunità per donare un carattere “nazionale” alle birre (si pensi a riguardo al caso americano, davvero emblematico). Va aggiunto che in questi ultimi anni il luppolo sta vivendo una vera e propria moda, che sta via via contagiando un po’ tutti i produttori e tutti – o, almeno, la parte più attenta – i consumatori; una moda che forse ha distolto l’attenzione dalle altre materie prime, che sono invece altrettanto importanti. Personalmente tendo ad apprezzare maggiormente una birra ben costruita sui malti (purché non pesante) rispetto ad una che gioca sull’esplosività e sulla freschezza dei luppoli.
Se acqua, malto d’orzo (e altri cereali) e luppolo sono quindi fondamentali, non c’è dubbio che il lievito meriti altrettante, se non maggiori, attenzioni. Un vecchio adagio tedesco dice che i birrai producono solo il mosto, poi è il lievito che fa la birra. Mi trovo assolutamente d’accordo: il lievito, pur essendo la materia prima meno concreta, meno tangibile, è senz’altro la più decisiva per il risultato finale. E’ necessario un buon lievito, utilizzato nel modo giusto, per la riuscita di una birra altrettanto buona. È ovvio che se non ci si accontenta del semplice mosto e si vuole realizzare della birra il lievito è indispensabile ma, al di là di questo, mi interessa più la parte aromatica collegata ad ogni fermentazione, la caratterizzazione che ciascun ceppo di lievito è in grado di conferire.
Questo vale soprattutto per le birre ad alta fermentazione, in cui la timbrica del lievito è sicuramente più evidente, più determinante. Nei Paesi di grande tradizione birraria che lavorano molto con i Saccaromyces Cerevisiae, soprattutto Belgio e Inghilterra, praticamente ogni birrificio possiede un proprio ceppo, fondamentale per il carattere e la riconoscibilità di tutte le birre di casa; facendo i primi nomi che mi vengono in mente penso all’importanza del lievito per Westmalle (che rifornisce anche Westvleteren e Achel), Dupont e Duvel. Sono solo tre esempi, ma spiegano bene quanto il Nostro sia in grado di conferire un goût maison unico. Più in generale in tutto il Belgio è così. Si tratta di lieviti talmente importanti che normalmente non vengono lasciati in bottiglia: dopo la fermentazione primaria la birra viene filtrata (o separata…), a volte pastorizzata, e poi si aggiunge un altro ceppo, selezionato per la rifermentazione in bottiglia. Seppur in modo meno marcante sul prodotto finito (più costruito sui malti e sui luppoli), anche nel Regno Unito i ceppi di lievito sono tenuti in grandissima considerazione dai produttori di Real Ale. Non dimenticherò mai il forte aroma che ho sentito quando sono entrato nella cantina della Titanic Brewery, a Stoke on Trent; le vasche di fermentazione aperte avevano abbondante lievito sulla superficie e c’era una penetrante nota fruttata, quasi tropicale, che ho poi ritrovato assaggiando le birre in un pub cittadino.
E in Italia? La giovane età del nostro movimento artigianale (bisogna sempre ricordare che i nostri artigiani più esperti hanno circa quindici anni di lavoro alle spalle, che sono molti per certi aspetti e pochissimi per altri) e le dimensioni medie piuttosto piccole dei birrifici offrono un panorama differente rispetto a quello belga o anglosassone. La quasi totalità dei nostri produttori utilizza il lievito, liquido o secco, più o meno come lo usa un homebrewer. La capacità di gestirli è molto cresciuta e i grossi problemi di fermentazione che s’incontravano una decina d’anni fa oggi sono molto più rari, come è vero che i birrai possono attingere da un catalogo decisamente vasto. Sul sito di uno dei fornitori più gettonati, nella sezione “microbirrifici” sono elencati ben trentacinque lieviti liquidi della Wyeast e dieci lieviti secchi della Fermentis.
Rimane il fatto che la delicatissima fase di propagazione del lievito è fatta – non mi viene termine più adatto – da “bricoleur” (come Enrico Borio definisce i birrai artigianali italiani). La vitalità di questi prodotti è però molto lontana dai livelli che si ottengono in laboratorio. Secondo i grafici della Fermentis un lievito secco ben reidratato raggiunge infatti una vitalità di poco superiore al 60%, mentre i birrifici dotati di laboratorio in cui effettuare la propagazione non inoculano se la stessa è inferiore al 97-98% (dato di Thornbridge e di Kulmbacher, per fare due esempi). Si tratta ovviamente di una differenza abissale, che ha spinto molti produttori a rivolgersi a ditte specializzate come la SG Biotech che forniscono starter già attivi, senza necessità di reidratazione, consegnati in birrificio già pronti all’uso. Anche questa, però, non è una soluzione definitiva, e la scelta dei ceppi è limitata a poche tipologie (sono quindici quelle elencate sul sito). Questo limite nella scelta del lievito ha un inevitabile risvolto sul panorama delle birre italiane. I nostri birrai sono stati talmente bravi da far entrare i loro prodotti nel Gotha birrario internazionale, e le birre di punta tengono ampiamente testa (e spesso superano) i grandi classici mondiali. Ma questo è merito soprattutto della preparazione dei nostri artigiani, della loro cura nella scelta delle materie prime (spesso molto particolari, basta pensare alle pesche di Volpedo o ai Ramassin della Val Bronda), non della firma unica che un ceppo della birreria è in grado di conferire.
Per questo motivo credo vada osservato con grande attenzione l’emergere di studi sui lieviti e l’apertura dei primi laboratori d’analisi all’interno dei birrifici. Superati i 10.000 ettolitri di produzione annua diventa economicamente sensato pensare di dotarsi di un laboratorio microbiologo interno, e sono convinto che nei prossimi anni inizieranno a venir fuori birre con ceppi selezionati in birrificio che saranno uniche, nel senso di non riproducibili se non con quello stesso lievito. Ricordo bene una domanda che mi fecero diversi anni fa, durante una giuria di Birra dell’Anno. Al termine di una batteria un giudice straniero (mi pare fosse Derek Walsh) mi disse: “Luca, ma in Italia avete solo un lievito?”. In effetti tutte le birre di quell’assaggio erano evidentemente state fermentate con lo stesso lievito e – seppur ovviamente diverse l’una dall’altra – avevano tutte la stessa timbrica, la stessa firma. È una cosa che mi ha fatto molto pensare, che mi torna alla mente tutte le volte che riassaggio una Saison Dupont o una Westmalle Tripel. Come sempre bisogna pensare ai tempi e ai modi giusti, sono processi lunghi e complessi, ma ritengo che – per poter finalmente parlare davvero di un prodotto nazionale – prima o dopo si debba arrivare a selezionare qualche ceppo “di birrificio”. Ciò non vuole assolutamente dire di rinunciare ai lieviti standard, significa avviare una sperimentazione che potrebbe far raggiungere, negli anni, risultati molto interessanti.
Il grande lavoro di selezione dei ceppi ci ha portato oggi ad avere un controllo di processo, una precisione di fermentazione, una pulizia che in passato non era nemmeno immaginabile. Questi sono valori cui non bisogna rinunciare, ma è pur vero che per ottenere tali risultati si è quasi totalmente annullata l’enorme complessità microbiologica che popolava le fermentazioni del passato. Come ha avuto modo di ricordare Duccio Cavalieri (biologo computazionale presso la Fondazione Edmund Mach di S. Michele all’Adige) in un laboratorio del recente Salone del Gusto, oggi i ceppi di lievito della fermentazione di pane, birra e vino sono nell’ordine della decina. Questo scenario, che oggi ci sembra del tutto normale, in realtà copre meno di 150 anni di storia dell’umanità (gli studi sul ceppo puro di Emil Christian Hansen risalgono al 1883). Per tutti gli altri seisette millenni di fermentazioni la situazione è stata ben diversa. Non si tratta né di tornare al passato, né di rinunciare al progresso scientifico, ma di recuperare – esattamente come sta avvenendo in altri settori alimentari – una biodiversità in passato troppo spesso sacrificata sull’altare del progresso scientifico. Senza scomodare l’anacronistico (come lo definisce qualcuno) ma stupendo (per me) lambic, vera e propria quintessenza della biodiversità microbiologica e della complessità fermentativa, credo che un lavoro di selezione di ceppi – autoctoni ma anche di derivazione classica – in birrificio possa diventare molto stimolante. Come sempre non bisogna avere fretta, le sperimentazioni stanno partendo soltanto adesso e solo in pochi birrifici (Baladin sta provando la fermentazione del ceppo Elixir, di proprietà del birrificio, su tutte le ricette, e Birra del Borgo sta da qualche tempo facendo test su lieviti autoctoni e su incroci di lieviti esistenti), ma sono convinto che sia una strada da percorrere per arrivare ad avere prodotti ancora più unici, ancora più riconoscibili, ancora più “italiani”. Senza mai perdere di vista il risultato finale, la birra, che deve sempre essere equilibrata, piacevole e invogliare alla bevuta, anche oltre un assaggio incuriosito.
Come dice Agostino Arioli, birraio e fondatore del Birrificio Italiano: la birra si valuta dopo il primo litro…
Articolo tratto da Fermento Birra Magazine n. 6