Di solito, bere insieme un bicchiere (farsi una birra, nel nostro caso), favorisce la reciproca comprensione: tanto da sciogliere la dialettica anche più aspra, fino a far superare diffidenze e contrasti attorno a patate assai bollenti. E invece, stavolta, è proprio il boccale a costituire, come si dice, il busillis della faccenda. Parliamo delle trattative in corso tra Bruxelles e Tokio per l’avvio di un commercio in effettivo regime di libero scambio sulla doppia direttrice tra Giappone-Europa. Ebbene, in questo contesto, tra le condizioni necessarie alla riuscita dei colloqui funzionali all’accordo che dovrebbe essere firmato nel 2015, c’è anche l’assunzione, da parte del Sol Levante, del provvedimento di apertura delle frontiere all’import di fusti e bottiglie provenienti dall’Ue. E qui… casca l’asino. Perché alcuni governi dell’Unione (Francia e Germania tra essi) mettono in discussione la volontà nipponica di cambiare alcune regole (puntuali e poco conosciute) che, di fatto, continuerebbero a ostacolare l’ingresso, nei confini dell’impero, di pinte dal vecchio continente. Una di queste norme riguarda la definizione legale stessa di birra: la quale (stando a un’informativa recuperata dall’agenzia Reuters), escluderebbe molti prodotti europei in virtù di elementi quali un contenuto di malto non sufficientemente elevato (indiziate dunque le tipologie a base di frumento come come Weizen e Wit); o la presenza in ricetta di ingredienti speciali come il coriandolo (altro inciampo per le Bière Blanche). Che non siano questi (si chiede, insomma, chi sospetta) se non cavilli per continuare a tutelare protezionisticamente l’egemonia, in Giappone, dei marchi dominanti quali Kirin, Asahi e Sapporo?