Double Beer, un’antenata nobile della Doppio Malto?
Vuoi vedere che, dopo anni e anni di battaglia contro quella dicitura così odiosamente generica, percepita come tutta italiana e assurta a simbolo di un intero modo, approssimativo e superficiale, di intendere la birra, toccherà, alla fine, almeno in parte riabilitarla? Parliamo, sì, della classificazione Doppio Malto; e, no, circa il riabilitarla, speriamo sinceramente di non doverlo fare. Ci siamo accinti a scrivere queste righe giusto per chiarire i termini di una parziale giustificabilità di una simile definizione. Il punto infatti è che, curiosando tra documenti e ricerche in tema di storia della birra, salta fuori come in Inghilterra – nel volgere dei secoli centrali sello scorso millennio, quando i termini Ales e Beers distinguevano le birre luppolate (le seconde) da quelle che lo erano poco o niente (le prime) – vi siano attestazioni di una tipologia brassicola indicata come Double Beer. A parlarne è, fra altri, lo stesso William Shakespeare, nel suo Enrico VI (opera scritta tra il 1590 e il ’92), descrivendo la fine dell’armaiolo Thomas Horner, ucciso dal suo apprendista Peter Thump in duello, poiché reso sbronzo dal vino e da una bevuta appunto di quella birra particolarmente forte (Here’s a pot of good double beer, neighbour: drink it and fear not your man; ovvero Qua, un boccale di buona double beer: bevilo fino in fondo e non aver paura del tuo uomo”).
Ebbene, ma oltre alla luppolatura (e infatti la si qualifica come Beer), cos’aveva quella bevanda, di particolare, per essere designata non con un’aggettivazione più semplice (ad esempio Strong), ma invece precisamente come Double? Elemento peculiare pare fosse proprio una doppia quantità di cereale in ammostamento. William Yworth (chimico e collaboratore di Isaac Newton), nel saggio Cerevisiarii Comes or The new and true art of brewing (Londra, 1692), la descrive come il risultato di un processo di mashing nel quale, al cereale fresco, anziché acqua, si aggiungevano i primi due mosti ricavati da una cotta precedente: quello ottenuto dallo scorrimento spontaneo della frazione liquida del mash attraverso le trebbie esauste; e quello prodotto dal successivo sparging. Una tecnica che, sostanzialmente, portava il mosto finale a una densità zuccherina grossomodo doppia, appunto, rispetto al suo potenziale standard.
Ma le testimonianze documentali vanno anche oltre, accreditando ulteriormente la locuzione Double Beer con un suo corrispettivo antipodico: la Single Beer, quest’ultima frutto di una procedura ordinaria, senza arricchimenti di sorta. Le differenze tra le due? Qui le fonti danno indicazioni divergenti: alcune parlano valori attorno ai 2 gradi alcolici (per la tipologia normale) contro 5 (per la extra); altre, invece, di titolazioni etiliche del 4% e del 6,7% rispettivamente.
Conclusioni? Una conversione spiazzante al concetto di Doppio Malto? No, per noi resta e resterà quel che è: una classificazione legale (meglio ancora, fiscale) italiana, significante troppo poco – assolutamente troppo poco – per essere assunta a categoria stilistica. Proprio perché non sottintende quel che invece pare sottintendesse l’espressione Double Beer ovvero una precisa peculiarità metodica, con altrettanto precisi risultati.