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Hall of Fame. Capitolo XXVII. Guinness Dry Stout

Guinness: oggi un gigante da 80 milioni di ettolitri l’anno, con una moltitudini di siti produttivi nel mondo; ieri un marchio pioniere, al quale è legata, se non la nascita, senz’altro la fortuna della tipologia Stout: tanto da aver raggiunto con essa un livello, quasi, di identificazione piena. Ecco perché, dopo aver parlato delle Porter e delle Irs, non possiamo esimerci dal trattare anche il tema, appunto, delle Stout; né dal farlo accogliendo, nella nostra Hall of Fame, proprio le insegne della St. James’s Gate Brewery.

A fondare l’impresa fu il patriarca Arthur Guinness, nel 1759; il quale spicca tra coloro che con più risolutezza – accanto a nomi altrettanto famosi, quali ad esempio (a Cork) Beamish & Crawford – portarono il movimento birrario irlandese a fare della pinta scura la propria bandiera liquida. L’isola di smeraldo si era infatti rivelata tra le più ricettive nei confronti dell’appena citata Porter, affermatasi in Inghilterra in quell’avventuroso XVIII secolo. Inevitabile dunque che, in loco, si prendesse a produrne autonomamente, e infatti l’azienda dublinese già dal 1799 si era consacrata in esclusiva allo stile allora dominante.

Come sappiamo, rispetto ad essa, La Stout (gergale per strong) costituiva inizialmente una versione più sostanziosa in spessore e alcolicità; e dunque, le sorti delle due furono strettamente legate. Di norma una gamma che comprendesse l’una, non mancava di proporre l’altra. Così, già nel periodo 1840-1850, troviamo che l’attuale capitale dell’Eire aveva affiancato Londra come maggiore polo di produzione britannico in ordine a entrambe le grandi interpreti del bere dark. I tempi, però, stavano volgendo rapidamente a sfavore della primogenita: l’avanzata delle birre ambrate (la Pale Ale con le derivate Bitter e Ipa) avrebbe gradualmente emarginato il suo ruolo, salvando dal massacro solo la sorella più giovane.

Intanto, si era verificato poi anche un cambiamento procedurale destinato a incidere profondamente nella storia di questa famiglia brassicola. Nel 1817 Daniel Wheeler aveva introdotto sul mercato una nuova varietà di malto, il Black Patent, torrefatto e intensamente nereggiante (il primo colorante legale in birrificazione): tale da consentire di elaborare una scura aggiungendone anche una minima quantità al solo Pale, così da poter sfruttare, di questo, la miglior capacità di saccarificazione rispetto alla materia prima che era stata fondamentale agli albori delle Porter ovvero quel Blown, così chiamato in quanto si trattava di un Brown essiccato a temperature molto alte, e raggiunte assai repentinamente, tanto da esplodere quasi fosse del pop corn, assumendo un gusto ti timbro empireumatiche (bruciate e non di rado affumicate).

Ecco, Guinness era stato tra i primi, nel suo Paese (dove questo aspetto sarebbe diventato distintivo), a passare convintamente dall’uso del malto Blown a quello del Patent; conferendo già alle proprie Porter e quindi, successivamente, alle proprie Stout, un profilo più rotondo, cremoso: inviso in realtà ai passionisti londinesi, i quali additavano sprezzantemente le versioni irlandesi, denigrandole per la mancanza di acidità, oltre che per la carbonazione troppo vivace. Connotati sensoriali che invece, nel tempo, avrebbero fatto delle schiume color cappuccino di St. James’s Gate le più apprezzate e le più diffuse.