Porter, l’Araba Fenice londinese
Difficile credere che quella che oggi viene considerata una birra scura un po’ di nicchia, ricca di estimatori e da bere magari a conclusione di una impegnativa serata autunnale, di certo non una session beer, sia stata un tempo la birra più diffusa e forse più consumata del mondo, primo esempio di globalizzazione birraria. Eppure ci fu un tempo il cui le Porter erano le birre del popolo lavoratore, viaggiavano solcando i mari e venivano prodotte, vendute e consumate quotidianamente in quasi tutti i pub del pianeta. È impossibile stabilire con precisione data di nascita e paternità, ma il luogo è certo: la Londra dell’inizio del diciottesimo secolo, dove fece la sua comparsa come versione più forte e luppolata delle brown ale allora esistenti per contrastare il successo di una ale chiara e luppolata molto popolare in città. Era prodotta con il solo malto brown, oggi in disuso, che donava alla birra un intenso colore marrone, tostature e anche qualche nota affumicata dovuta ai metodi di essiccazione utilizzati. Diverse infusioni dello stesso malto venivano miscelate e poi maturate in botti di medie dimensioni. La produzione fu incentivata dalla scoperta che questa nuova birra scura si prestava a temperature di fermentazione più elevate rispetto alle preesistenti brown ale, aumentando quindi il periodo dell’anno utile alla sua produzione e dando la possibilità di utilizzare vasche più grandi, che producevano maggior calore durante la fermentazione.
Questi fattori furono decisivi per abbattere i costi di produzione, rendendo questa birra molto popolare fra la classe lavoratrice, in particolare presso i facchini, porter in inglese, al punto da assumerne addirittura il nome. Dal punto di vista gustativo erano realizzate con una maggiore attenuazione degli zuccheri, risultando più secche rispetto alle birre esistenti, e con la lunga maturazione assumevano note acidule e vinose grazie all’azione di brettanomiceti, batteri lattici e pediococchi presenti nell’ambiente. Le più alcoliche venivano vendute come Stout Porter, dove il termine “stout” era usato per indicare audacia e coraggio: nessun riferimento insomma allo stile che oggi conosciamo, ma solo l’essere una versione più forte di una data tipologia di birra, chiare comprese.
Solo nel tempo le stout (questa volta come stile) riusciranno ad affrancarsi dalla dimensione di costola delle porter, guadagnandosi quell’identità di birre nere e impenetrabili che è giunta fino a noi. La conquista inarrestabile del mercato si realizzò quando per la maturazione si passò dall’uso delle botti a gigantesche vasche di fermentazione, migliaia di volte più capienti e con maggiore longevità, abbattendo drasticamente i costi e permettendo l’affermazione di un certo numero di grandi birrifici come leader di mercato. La produzione ed il consumo cominciarono a diffondersi in tutta l’Inghilterra, a Dublino e, nel corso dei due secoli successivi, nelle Indie, negli Stati Uniti, in Australia, in Canada, in Russia, persino in Svezia, in Polonia e addirittura in Germania! Con la diffusione di massa verso la fine del diciottesimo secolo anche la natura delle porter cominciò a modificarsi. I birrifici iniziarono a commercializzare miscele di porter giovani con porter molto mature, dette stale o entire. Nelle vasche stesse entrava ormai un po’ di tutto, non solo il mosto di porter, ma anche gli avanzi di altre produzioni e persino i residui dei fusti che tornavano dai pub. D’altronde negli stessi pub era da tempo piuttosto comune la pratica di miscelare alle porter altre tipologie di birre. Anche le ricette iniziarono a cambiare dopola scoperta che l’elevata resa in fermentazione del malto pale, più chiaro, compensava ampiamente il costo più elevato rispetto al brown, con la conseguenza che in molti iniziarono a produrre porter aggiungendolo alla tradizionale base di malto brown.
Il cambiamento produttivo più radicale avvenne però nel 1817 con l’introduzione del malto black patent, torrefatto ed in grado di realizzare porter molto scure anche se miscelato al solo malto pale. Iniziava così il declino storico del malto brown, mentre il profilo organolettico delle porter originali scompariva per sempre e le “nuove” porter partivano alla conquista del mondo. Il dominio rimase incontrastato fino all’inizio del ventesimo secolo. In un certo senso le porter furono vittime del loro stesso successo di massa, che spinse i birrifici ad una continua ricerca di soluzioni che ne abbattessero il costo. La densità iniziale e il grado alcolico scesero progressivamente, le materie prime divennero sempre meno di qualità, per usare meno luppolo si iniziò a gettarlo unicamente a inizio bollitura conferendo solo amaro a discapito dell’aroma. I gusti dei bevitori cominciarono a cambiare e molti iniziarono ad abbandonare le porter per dedicarsi ad altre birre di successo, come le mild e le luppolate pale ale di Burton-upon-Trent.
Il colpo di grazia furono le due Guerre Mondiali, che portarono a una restrizione delle materie prime disponibili e a un aumento delle accise, che determinò una discesa generalizzata del livello alcolico delle birre britanniche. Le porter si impoverirono a tal punto che tutti, tranne gli anziani nostalgici, le abbandonarono. I birrifici, una volta interamente dedicati alla loro produzione, si concentrarono progressivamente su altre tipologie, fino ad abbandonarle completamente. In terra britannica già alla fine degli anni ‘60 le Porter erano estinte, nel 1973 anche la Guinness di Dublino si arrese: lo stile porter tradizionale, dopo 250 anni di gloria, era morto. La passione genuina e l’amore per la birra però possono fare miracoli. Alla fine degli anni ’70, grazie al lavoro di recupero della più importante associazione di consumatori di birra del mondo, il CAMRA, e alla sensibilizzazione portata avanti da personalità come Michael Jackson, qualche birraio inglese – primo fra tutti Timothy Taylor – provò a riproporre il vecchio stile. Altri ne seguirono timidamente i passi. Non fu un successo travolgente, ma la crescita divenne costante. Si trattava, nella stragrande maggioranza dei casi, di interpretazioni delle porter fedeli a quelle di inizio secolo, non delle originali del diciottesimo. La riscoperta e l’interesse costante maturati negli ultimi decenni hanno permesso a questo stile di affrancarsi dall’oblio, la reinessance americana e la sua onda lunga hanno fatto il resto, tanto che oggi si assiste a una seconda giovinezza delle porter (in Patria e non solo) e lo stile gode di una vasta platea di estimatori. Nel corso della sua travagliata storia si sono perse le differenze con lo stile dry stout, di fatto oggi indistinguibili, e sono le scelte di marketing dei birrifici a far propendere per un nome o per l’altro. Qualcuno identifica con le porter quelle birre che insieme al malto pale fanno uso del black, che dona note acri e di liquirizia, e di altri malti speciali come crystal e chocolate, che danno una certa complessità e morbidezza, mentre classificano dry stout le ricette che prevedono un uso prevalente del malto pale insieme a significative quantità di orzo tostato, dalle spiccate note di caffè torrefatto. È una distinzione che mi trova abbastanza allineato, ma le eccezioni sono così numerose che rischia di rivelarsi una classificazione personale più che un qualcosa di universalmente condiviso.
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Articolo tratto da Fermento Birra Magazine n. 6