Hall of Fame. Capitolo XIII. Schneider Weisse
Una cosa è certa: le Weissbier hanno oggi diversi legittimi e quotati interpreti. Come pensare di omettere da questo novero nomi come Maisel, Weihenstephaner o Ayinger? Ma è altrettanto certo che probabilmente nessuno si farebbe tentare dal pensiero di non riconoscere il ruolo di primus inter pares al marchio Schneider di Kelheim e alla sua Schneider Weisse Original. Per la categoria Birre di grano bavaresi è dunque lei a guadagnarsi l’elezione nella nostra Hall of Fame. La storia della famiglia Schneider si fonde d’altra parte inscindibilmente (fino quasi a coincidervi) con quella della famiglia di tipologie birrarie alla quale si è consacrata, tanto da dedicarsi a esse in esclusiva.
Dopo la promulgazione in Baviera del Reinheitsgebot (Editto di purezza), con cui, nel 1516, il duca Guglielmo IV – al fine di preservare gli scarseggianti raccolti di frumento e segale per la panificazione – impose di limitare gli ingredienti per il brassaggio ai soli orzo, luppolo e acqua, le Weissbier continuarono a prodursi soltanto per mano della stessa famiglia al potere, i Wittelsbach, che aveva mantenuto tale prerogativa, concedendola eventualmente ad altri con specifico atto di deroga. Ebbene, nel 1872, il discendente di tale casato, re Luigi II, assunse la decisione di abbandonare la birrificazione in proprio negli impianti dinastici: cedette così, in esclusiva, la facoltà di utilizzare frumento a Georg Schneider I; il quale – acquisita a Monaco la Weisses Brauhaus (il più antico stabilimento specializzato in Weisse ella città) – procedette alla fondazione dell’impresa che tuttora porta il suo nome. In plancia c’è oggi Georg Schneider VI, al comando di un’attività che – a Kelheim (dove le lavorazioni si erano estese già nel 1927 e dove sono ora concentrate interamente, dopo il bombardamento del sito monacense nel 1944, durante la seconda guerra mondiale) – sforna volumi annui pari a circa 300mila ettolitri.
La Schneider Weisse Original conserva ancor oggi, dalla fine del XIX secolo, la ricetta ideata dal capostipite della grande dinastia imprenditoriale bavarese. Il cui nome campeggia attualmente su una gamma assai ampia di prodotti, moralmente eredi (insieme a tanti altri brand) di una tradizione, quella delle birre di grano, le cui radici affondano peraltro molto indietro nei secoli, fino ai primi anni del Rinascimento. E a tale proposito merita fare anche una precisazione sull’equivalenza Weizen e Weiss: equivalenza sostanziale, ma, almeno in chiave di storia della terminologia, non assoluta. Fin dalla loro comparsa (i documenti ne attestano con certezza l’esistenza dagli inizi del XVI secolo, localizzandone l’origine nella regione della Foresta Bavarese, che si estende anche in Repubblica Ceca), le birre di grano sono state designate con la definizione più didascalica, quella di Weizenbier (letteralmente, di frumento).
La denominazione Weissbier (letteralmente, birra bianca) circolava invece già dal medioevo, a indicare però genericamente qualunque prodotto avesse un colore appena più chiaro della media dell’epoca, tendenzialmente scura in virtù dell’essiccazione dei cereali stessi mediante esposizione diretta ai vapori di un fuoco di legna da ardere. Lo spartiacque che segna l’avvio del processo per cui, oggi, le due classificazioni tendono a coincidere corrisponde grossomodo alla metà del XIX secolo e alla contestuale esplosione delle Lager, realizzate (grazie alla diffusione dei forni a getto d’aria) in varie tonalità cromatiche: anche e soprattutto in quelle inclini ai colori più luminosi. Nel fiorire dei generi a bassa fermentazione, quelli che si proponevano con un look più chiaro e più limpido vollero assumere, per caratterizzarsi più nettamente, nomi d’arte specifici (es. Pilsener, Munchener Hell) relegando così l’antica attribuzione di Weiss alle sole alte fermentazioni e in particolare a quelle prodotte con l’opacizzante frumento.