Gran Bretagna, in rampa un nuovo stile: le Hoppy Light Ale
Se è vero – senza la minima ombra di dubbio – che la fucina più alacre dei nuovi stili birrari è quella, incessantemente all’opera, degli Stati Uniti, è altrettanto vero che anche le altre grandi aree di produzione non se ne stanno con le mani in mano. Con i loro tempi, certo: con ritmi meno ossessivi rispetto a quelli della creatività (talvolta compulsiva) d’oltreoceano; ma in ogni caso, anche nel resto del mondo, la luce delle stanze di sperimentazione è sempre accesa. Basti constatare quel che accade in Italia, o in Germania, dove – pur tendenzialmente refrattari alla trasgressione dei dettami tradizionali – da un lato è ormai consolidato il ruolo di luppoli di moderna generazione, dall’altro c’è chi si dedica alla ricerca e alla riscoperta di generi antichi ed estinti.
E poi c’è la Gran Bretagna. Qui la lentezza al recepimento dell’innovazione (motivata anche da un tenace orgoglio nazionale) ha dovuto, nel corso dell’ultimo decennio, alzare bandiera bianca di fronte al montare di un’ondata agguerrita di brewers d’animo nuovomondista; tanto da sollecitare la creazione di nuove varietà di luppolo (come Endeavour o Jester), con passaporto UK, ma con Dna sensoriale americaneggiante. Ma la resistenza al cambiamento (all’ammissione stessa di una possibilità di cambiamento: ferma restando la funzione e l’importanza delle categorie birrarie canoniche) è stata, ed è tuttora, consistente. In questo contesto, la penetrazione (per dosi inizialmente omeopatiche) delle connotazioni organolettiche tipiche dello hopping process di timbro Usa & Pacific, ha dato luogo a un fenomeno curioso: la diffusione di un’area birraria piuttosto chiaramente delineata nei suoi tratti materiali, la quale però – nonostante appunto la propria esistenza de facto – non ha finora avuto riconoscimento ufficiale come nuovo ambito stilistico.
L’evenienza è stata rilevata con la consueta puntualità e perspicacia da quell’acuto osservatore del panorama britannico che è Martyn Cornell. Il quale, in un recente intervento, evidenzia come da almeno 15 anni, ai banconi dei pub del Regno, si consumino, in misura crescentemente stabile, birre caratterizzate da alcuni precisi comuni denominatori: colore chiaro (un territorio cromatico sempre più gradito e frequentato dai sudditi di Sua Maestà), grado alcolico decisamente modesto (fra il 3 e il 4%), tenore aromatico e amaricante da luppoli statunitensi od oceanici invece decisamente spiccato (le Ibu, ad esempio, stanno tra le 30 e le potenziali 50). Insomma, un perimetro piuttosto precisamente praticato, da produttori, somministratori e appassionati. Al quale però, finora, non è stata data una carta anagrafica.
Il momento però, sembra arrivato: e il battesimo sembra imminente. Il nome? Già pronto: Hoppy Light Ale. Una definizione che in effetti calzerebbe in modo appropriato ai confini sensoriali cui si riferirebbe. I prodotti di cui si parla, infatti, risultano affini per aspetto e per tasso etilico alle Golden Ale, ma che, quanto a hoppiness (e a snellezza di corpo, con tanto di vivace secchezza finale) calcano piuttosto le latitudini delle Session Ipa versione yankee. Alcuni esempi, per dare concretezza al cliché? La Revival targata Moor (3,8 gradi, Columbus e Cascade in ricetta) e la Moor Top della scuderia Buxton (3,6 gradi, confezionata con Chinook Columbus); e poi quella che può essere considerata la capostipite della progenie, la Hophead firmata da Dark Star, sul mercato dal 2001 con i suoi 3,8 gradi e un temperamento gustolfattivo basato sull’accoppiata Cascade-Amarillo.