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Che fine ha fatto l’amaro nelle IPA americane?

Mi ritengo a tutti gli effetti uno hophead. Se dovessi scegliere di portare uno, un solo stile di birra su un’isola deserta, non avrei dubbi su che mettere in valigia. Il carattere del luppolo, la sua forza potenzialmente esplosiva, l’immenso raggio organolettico delle sue varietà, la pulizia che si avverte dopo la fine di un sorso e quel senso di secchezza/amarezza da spegnere e allo stesso tempo soddisfare con un altro, e poi un altro ancora, in un crescendo di pinte. Beh credo sia stata la scintilla più forte che ha acceso in me, dieci anni fa, la passione e l’interesse per la buona birra – e conseguentemente verso la craft beer americana. Più delle imperial stout, più delle belghe. Fatte bene, mi piacciono grossomodo tutte le declinazioni: dalle West-Coast alle East-Coast, dalle NEIPA alle English IPA, dalle DIPA alle TIPA, tralasciando giusto magari qualche aberrazione come le, ahimè, durissime a morire Belgian IPA o Black IPA. La sete di luppolo mi ha sempre portato, e mi porta ancora, a seguire con particolare attenzione le tendenze, le mode, i canoni della macro-categoria. E c’è un fatto abbastanza importante che negli ultimi tempi, diciamo da qualche annetto, mi preoccupa. Le IPA amare stanno diminuendo.

La fortissima ascesa delle NEIPA moderne, che molti ignari avevano derubricato alla voce “moda cretina e passeggera”, ha, nel bene e nel male, cambiato la percezione dello stile nel consumatore medio. Soprattutto quello di primo pelo, che da poco si è avvicinato alla craft beer ed è più facile da irretire nelle nuove tendenze. Se da un lato il mondo delle IPA si è aperto a scenari che hanno re-inventato la ruota (si ricordi che i London Ale/Conan/Vermont yeast non sono scoperte recenti, anzi) e ampliato la scelta possibile quando si vuole bere luppolato, dall’altro il mercato diventa un traino per schiere di birrifici che vedono nelle NEIPA facili vendite e conseguenti utili. Il processo, in tempi non sospetti, ha addirittura contagiato Monkish: nato con un focus su stili prettamente belgi, pare che il piccolo produttore di Torrance si fosse cimentato in birre hazy quasi per caso. Il resto è storia, e oggi consideriamo Monkish un riferimento mondiale. Specie per l’unicità di riuscire a coniugare la tradizione West-Coast (la triade del luppolo CCC, Cascade-Centennial-Columbus, al centro di tutto, con i suoi classici descrittori dank, piney, resinous) agli standard delle moderne NEIPA che puntano su una maggiore morbidezza del corpo e flavor più ricchi e fruttati. Ma se nel loro caso possiamo dire: avercene!, il fenomeno ha avuto un effetto drammaticamente retroattivo e generale, portando i produttori a ritornare sui propri passi, a rivedere ricette e/o nuove uscite.

Di certo non avviene in Italia, dove le NEIPA non sembrano rappresentare poi tanto un’esigenza per i birrifici e hanno sortito finora un interesse giusto tiepido, forse complice l’irrisoria quota nazionale del segmento craft nel mercato. Ma all’estero capita, eccome: in UK, in Scandinavia, ma particolarmente in California o comunque in tutta la costa Ovest. Nel mio ultimo viaggio, risalente all’estate scorsa, una discreta maggioranza delle IPA assaggiate, soprattutto di nuovi birrifici, appartenevano alla corrente NEIPA. Fin qua niente di male, è fisiologico e ci sta, per giunta ne ho bevute anche di ottime. Tuttavia, in più di un’occasione mi sono ritrovato nel bicchiere una IPA perfettamente cristallina, che tendeva al dolciastro. Non era una NEIPA, ma nemmeno graffiava, secchezza zero, non comunicava quello stacco imperioso nei territori dell’amaro, che per carità c’era, ma si mescolava a una dolcezza di fondo, un’indistinguibile nota tra il miele e la mela gialla, con derive di ananas e melone. Non per colpa del malto, non i caramelloni mostruosi di un tempo, no: sembrava, ecco, una West-Coast IPA depauperata, edulcorata e senza personalità. Essendo successo in taproom non da poco (alcuni nomi? Societe, Moksa, Cellarmaker), e nello stato dove sono stati stabiliti i dettami di un certo modo di fare le IPA, mi è sembrato indice di un cambiamento. Leggero, ma reale. Come se l’amaro, il dank, quell’erbaceo secco, mai banale, mai tacciabile di hopburn, non fosse più consuetudine o emblema delle birre di punta, le flagship dei birrifici.

Evitiamo comunque i facili allarmismi: le West Coast IPA restano vive e vegete. Le roccaforti più solide della categoria continuano a permettere di placare la propria sete di luppolo secondo un’esperienza del prodotto unica e irriproducibile altrove. Fatta eccezione per il già citato Monkish, Port Brewing, i vari Pizzaport, Sierra Nevada e Russian River restano tra i luoghi dove bere meglio in California in termini di taproom. E forse ci si può spingere a dirlo per l’intera costa. La facilità con cui una pinta di Blind Pig, di High Tide, di Swami o Torpedo termina sotto i propri occhi, a colpi di sorsate, è disarmante. Specie con la complicità del tiepido e mite clima della costa californiana (a parte Chico, dove ad agosto fanno 36 gradi all’ombra), tra tavole da surf, sabbia e infradito.