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3 Fonteinen, Boon, Cantillon: tre modi di intendere il lambic

Recentemente ho avuto occasione di visitare, in due giornate successive, tre birrifici molto importanti, per il mondo del lambic: 3 Fonteinen, Boon e Cantillon. Li assaggio spesso, ma mi ha molto colpito vedere quanto, in pochi anni, siano cambiati questi birrifici che “teoricamente” non dovrebbero cambiare mai e, soprattutto, vedere come questo prodotto straordinario, antico, che è il lambic possa in realtà essere interpretato, pensato e prodotto in modi decisamente diversi. La prima tappa del viaggio è stata, finalmente, l’occasione per vedere la nuova sede di 3 Fonteinen, inaugurata il primo settembre dell’anno scorso. La seconda era invece nei desideri da tempo: solo ora sono riuscito (grazie anche all’intercessione di Radeberger Italia, che ringrazio) ad ottenere un tour con Frank Boon, dopo tanti anni dalla mia prima visita al birrificio. La terza sosta da Cantillon è stata – credo sia un’esperienza comune a molti amanti del lambic – una sorta di ritorno a casa, ma vissuto in una luce leggermente diversa, dopo le visite del giorno precedente.

Ma andiamo con ordine. In un tipico clima belga, tra pioggia orizzontale e immediati sprazzi di sole, arriviamo a Lot, a pochi minuti dalla storica sede di Beersel. Qui c’è il nuovo locale di mescita di 3 Fonteinen (che mantiene lo stesso nome del precedente di Beersel, “lambik-O-droom”), completo di negozio per birre e merchandising, da cui si accede ad un’enorme cantina con un bel parco botti attive, oltre a spazi dedicati all’imbottigliamento e alla maturazione. Nei prossimi anni verrà installato, in un secondo, adiacente edificio, una nuova sala cottura da affiancare a quella di Beersel, che rimarrà comunque attiva. Nella scorsa stagione sono stati prodotti, nel birrificio di Beersel, circa 3.000 ettolitri di lambic, che equivalgono all’80% del mosto trasferito nelle botti della nuova cantina di Lot. Il restante 20% proviene da Boon e da Lindemans (3 Fonteinen nasce come blender, la prima sala cottura risale soltanto al 1999). A Lot ci sono circa 500 botti, di capacità media superiore ai 1.000 litri, in gran parte fabbricate in Italia. In totale la cantina ha una capacità di 6.000 hl, sufficiente per produrre circa 2.000 hl di birra in bottiglia. Questo significa che «ogni goccia di lambic rimane in media due anni e mezzo in botte, prima che venga assemblato per la geuze, oppure utilizzato per la macerazione della frutta». L’obiettivo è quello di triplicare la produzione – mantenendo inalterati i tempi di maturazione – ed arrivare a produrre 6/7.000 ettolitri di birra finita entro i prossimi cinque anni. Risultato che si vuole ottenere incrementando la cantina e installando un nuovo birrificio da 40 hl, ma con doppia caldaia e coolship da 80 hl, in modo da tenere aperta la possibilità di effettuare due cotte al giorno, nei mesi più freddi dell’anno (gennaio e febbraio). Quando il nuovo birrificio sarà in funzione 3 Fonteinen non acquisterà più lambic all’esterno. Questi i numeri, impressionanti, che ci snocciola Armand Debelder, con evidente orgoglio. Quello che però più mi colpisce è il modo in cui Armand ci racconta gli sviluppi del suo storico birrificio, il suo atteggiamento. Chi conosce Armand e la storia della sua azienda sa che ci sono stati molti momenti difficili, culminati col celebre problema del 2009: un banale guasto ad un termostato che distrugge circa 3.000 bottiglie, portando l’azienda ad un passo dal baratro. Fortunatamente oggi le cose sono molto diverse e Armand – che in passato ho trovato spesso schivo, quasi dimesso – oggi appare in splendida forma, combattivo, convinto delle sue idee e dei suoi progetti, carico come una molla. Addirittura direi ringiovanito (anche se lui si definisce «in pensione»): sarà merito delle energie dei nuovi giovani soci Michaël Blancquart e Werner Van Obberghen, o sarà la separazione dalla ex-moglie («una liberazione», per usare le sue parole), ma non ho mai visto, in tanti anni, un Armand così scoppiettante. La sua visione del lambic è chiarissima e si potrebbe riassumere in due parole: tradizione e qualità. L’atteggiamento è quasi dogmatico, non viene ammessa nessuna “modernità” nel processo produttivo: si privilegiano botti grandi – le più capaci sono splendide botti ovali da 7.000 litri – più lente nella maturazione ma in grado di trasmettere straordinaria finezza al lambic e non viene usato alcun filtro, anche le birre alla frutta vengono sottoposte a lunghe maturazioni: «i miei filtri sono il tempo e la gravità». Tutte le birre sono rifermentate in bottiglia, i fusti vengono considerati un’aberrazione, liquidata con «non troverai mai un grande Champagne alla spina», così come non c’è spazio per ricette stravaganti. Nel menù sono presenti molte referenze, diverse annate, diversi “cru”, ma tutti afferenti alla tradizione più stretta: lambic in caraffa, geuze, kriek e framboise in bottiglia. Nel locale di mescita (davvero molto d’impatto, con i tavoli ricavati da parti di vecchie botti) alcuni vintage sono proposti a cifre davvero importanti e il marketing appare, finalmente, aver preso una direzione ben definita. Dopo anni di (eccessivo, a parer mio) dinamismo nell’immagine, ora sembra che il birrificio abbia trovato una sua linea grafica, con il fronte delle bottiglie caratterizzate da un grande “3” disegnato con effetto “pennellata” e tutte le informazioni sulla retroetichetta. L’attenzione alla comunicazione e alla modernità dei social è ben esemplificata da un doppio contatore – aggiornato in tempo reale – per Facebook e Istagram. L’assaggio del lambic direttamente dalla botte si inserisce nel ristretto novero delle esperienze che non si dimenticano. L’olfatto è di incredibile finezza, passeresti ore col bicchiere sotto il naso: ampio, complesso, intrigante, con una bellissima evoluzione. La bocca è splendida, delicata ma al tempo stesso profonda, con un’acidità molto gentile e un finale lunghissimo, sinfonico. Se ci si sposta sui vintage in bottiglia non c’è che l’imbarazzo della scelta (e della spesa), ma anche “solo” la geuze standard evidenzia una bolla fine e vivace, aggiungendo dinamismo e carattere all’eleganza del lambic piatto.

Meno di dieci chilometri separano Lot da Lembeek dove ad attenderci c’è Frank Boon, saldamente al comando del birrificio che porta il suo nome. Nuovi investitori hanno permesso, nel corso del 2015, di riassorbire le quote cedute nel 2003 al gruppo Palm, che oggi non è più coinvolto, nemmeno nella distribuzione. Con un sorriso Frank ci racconta che ormai ha 63 anni e vuole lasciare ai due figli Jos e Karel, che presto prenderanno le redini dell’azienda, un «birrificio sano e indipendente». Probabilmente però l’alleanza con Palm ha permesso, nel corso del 2013, di inaugurare una nuova sala cottura, completamente automatica, capace di produrre più di 27 mila ettolitri nella scorsa stagione. Composta da cinque tini è in grado di lavorare h 24, concatenando le cotte, ma mantenendo il tradizionale “turbid mash”. L’aspetto è molto lontano dalle tradizionali sale cottura che si è abituati a vedere nelle storiche birrerie belghe, assomigliando molto di più agli impianti industriali più recenti. Frank ci spiega le fasi di produzione del mosto e capisco perché sento spesso il suo nome associato al termine “knowledge”: tutti i colleghi gli riconoscono un grande livello di preparazione, che lui utilizza per gestire il più possibile un processo magico e ancestrale come quello del lambic. Il coolship non viene utilizzato per la totalità del mosto, ma il volume raffreddato naturalmente viene calcolato in base alla temperatura esterna; il restante mosto viene chiarificato nel whirlpool, raffreddato con un moderno scambiatore di calore e quindi trasferito in un tino dove si unisce al mosto “contaminato” nel coolship. Dopo ulteriori 12 ore di sedimentazione la totalità del mosto viene trasferita nelle botti per la fermentazione. Questa tecnica è chiamata “split cooling” ed è utilizzata dal 1995 per avere un maggior controllo della temperatura del mosto. Da Boon si ha l’impressione che tutto sia progettato per la miglior gestione possibile del processo e il birrificio è ancora in fase di espansione: nei prossimi anni verranno installati quattro nuovi tini in rovere per lo split cooling, e quindi sono previsti due nuovi coolship, oltre a nuovi magazzini per lo stoccaggio del luppolo (che i produttori di lambic devono invecchiare almeno due anni prima dell’utilizzo e che quindi necessita di molto spazio). La cantina – decisamente più tradizionale – è impressionante. Distribuita su 5 grandi strutture, conta 161 foeder, di capacità variabile dai 40 ai 270 ettolitri (in una delle botti più grandi ci sta quasi tutta la produzione annuale di un birrificio come Loverbeer, tanto per dare un raffronto!). La vasca più antica (tra quelle di cui si conosce la data di costruzione) è la numero 79 e risale al 1883, realizzata dalla Persenaire di Anversa, ma sono costanti i lavori di manutenzione e ricostruzione; non è raro vedere botti molto recenti, caratterizzate da legni nuovi, di colore chiaro, a fianco di botti ultracentenarie, ormai annerite dallo scorrere del tempo. In totale la cantina custodisce circa 25.000 hl di lambic, di cui circa 19.000 ettolitri in botti in legno e circa 6.000 hl in tini in acciaio usati per assemblaggi e macerazione della frutta. L’assaggio del lambic dalla botte è, anche in questo caso, molto interessante. Decisamente diverso da quello di Armand, il lambic di Frank è più austero, caratterizzato da un amaro piuttosto marcato, anche in questo caso segnato da un’acidità controllata, molto fine. La degustazione prosegue con gli assaggi dei “Mono Blend”, un bel progetto di lambic non assemblati (a parte l’ovvia aggiunta di un “liqueur de tirage” per la rifermentazione) e battezzati col numero del “Vat” di provenienza. Bottiglie molto utili per capire quanto il carattere del lambic sia diverso da botte a botte e quindi di quanto siano fondamentali l’esperienza e la sensibilità dell’assemblatore. Boon in questo è maestro, riuscendo a garantire una costanza qualitativa davvero impressionanti: le sue geuze – che assaggio abbastanza spesso – sono sempre una garanzia. Tutto bene, quindi? Quasi, perché purtroppo l’assurdo mercato belga (decisamente importante per il birrificio) continua a chiedere innaturali kriek dolci, rifiutando il prodotto autentico che invece funziona decisamente meglio all’estero. Quindi, a fianco delle splendide Mariage Parfait e delle ottime Oude Geuze e Oude Kriek troviamo la Kriek standard, che certamente stona, perché addolcita con Acesulfame K. Si tratta comunque di una birra a vera fermentazione spontanea (prodotta a partire da un mosto più leggero e per questo motivo meno alcolica), per la quale viene utilizzata vera frutta in macerazione. Siamo cioè anni luce da altre kriek “finte” come quelle prodotte – per fare un nome – da Lindemans, che sono fermentate in acciaio, addizionate di sciroppo e pastorizzate. Ciononostante una birra così davvero non c’entra nulla col resto della gamma e mette sinceramente molta tristezza, perché sono certo che Frank ne farebbe volentieri a meno, se potesse (la Kriek è la seconda etichetta più venduta).

Il nostro tour si conclude la mattina successiva, in un Cantillon insolitamente tranquillo e privo della consueta presenza italiana (d’altronde era il venerdì di EurHop). Non credo servano molte descrizioni di quello che è certamente il produttore di lambic più conosciuto e frequentato e che ha un ruolo imprescindibile nella diffusione e nella tutela del lambic tradizionale. Nel corso della stagione 2016/17 sono state effettuate 53 cotte (52 di lambic e 1 di Iris), per un totale di circa 2.000 ettolitri immessi in commercio. La cantina di Jean Van Roy appare decisamente piccolina, se paragonata a quella dei colleghi: l’aggiunta di un secondo magazzino – a poche centinaia di metri dal birrificio – ha permesso di arrivare ad un totale di 1.585 botti per il lambic, per una capacità di 6.200 ettolitri.  Nel secolo scorso Jean-Pierre Van Roy ha tenuto duro in momenti molto difficili, in cui nessuno voleva più bere le sue gueuze autentiche, vibranti e il mercato andava invece verso prodotti più moderni, ammorbiditi dall’aggiunta di saccarina. Jean-Pierre ha condotto vere e proprie battaglie per la difesa del lambic tradizionale e sono famosi i suoi litigi in sedi governative, che gli hanno garantito il soprannome di “Osama Van Roy”. Il figlio Jean ha raccolto un’eredità molto importante, ma non si è limitato a percorrere la strada tracciata dal padre, ci ha messo al contrario molto del suo. Sperimentando, lavorando sulle provenienze dei legni (c’è stato anche un test sulle anfore), introducendo un approccio decisamente più moderno. Il lambic di Cantillon rimane – ovviamente – un prodotto assolutamente tradizionale, come possono toccare con mano i quasi 50.000 visitatori che ogni anno si aggirano per il “Musée Bruxellois de la Gueuze”, che altro non è che la somma della sala cottura e delle cantine di fermentazione del birrificio. La collocazione cittadina (bisogna ricordare che il birrificio-museo è a soli 500 metri dalla Gare du Midi) ha imposto scelte diverse, favorendo le botti piccole, inferiori ai 500 litri, mentre in Rue Sergent De Bruyne (indirizzo del “nuovo” magazzino, già sede del blender “Brasserie Limbourg”, chiuso negli anni ’60) sono stati installati anche foeder da 2000 litri. L’assaggio del lambic piatto, servito tradizionalmente dalla caraffa, evidenzia un prodotto di straordinaria profondità e di grande carattere. Leggermente velato, offre un olfatto potente, articolato, seguito da una bocca ampia, sostenuta da una bella acidità, con un netto accento citrico. Un lambic molto varietale, si distingue nettamente dai precedenti, forse perdendo qualche punto in eleganza pura, ma guadagnando in tipicità e nerbo. In qualche modo sembra di scorgere, nel bicchiere, la personalità di Jean. Cantillon produce alcune birre che non si possono nemmeno definire lambic (come la Iris, che non usa frumento), utilizza talvolta luppoli freschi o dry hopping (come per la splendida Cuvée Saint-Gilloise), sperimenta materie prime decisamente insolite (come il tè nell’ultima Zwanze) o frutta non convenzionale, come l’albicocca nella tagliente Fou’ Foune. Ogni volta che si entra in Rue Gheude c’è qualcosa di nuovo da assaggiare, Jean stappa sempre qualche “prova”, qualche “gioco”, che gli sono utili per capire come reagisce il suo lambic alle contaminazioni più disparate. L’impressione è che qui la fermentazione spontanea venga interpretata con una sana libertà, senza il peso schiacciante della tradizione inviolabile, senza dogmi o preconcetti, ma con un approccio decisamente contemporaneo (seppur intransigente sotto l’aspetto qualitativo). Si interpretano così anche le birre in fusto, sulle quali ognuno può avere la sua opinione, ma che certamente sono un tema importante. Capisco e rispetto la posizione di Armand: un prodotto tradizionale, complesso e straordinario come la geuze non può finire in un “banale” fusto di acciaio, peggio ancora se di plastica usa e getta. Al contempo però credo sia chiaro che le geuze e le kriek in fusto sono un’importante possibilità di mercato per Cantillon e permettano di raggiungere e convincere un numero di consumatori che sarebbe difficilissimo conquistare con la più impegnativa bottiglia. A tal proposito penso alla genialità e all’efficacia di un evento come lo Zwanze Day. Ogni anno, nella stessa data, decine di selezionatissimi locali in tutto il mondo attaccano – alla stessa ora – un fusto di Zwanze Cantillon (una versione unica, tutti gli anni diversa). Un evento diffuso che vale, da solo, anni di battaglie, di articoli, di laboratori spesi per raccontare, difendere e far amare quel patrimonio dell’umanità che è il lambic.