Per fare grandi birre bisogna essere grandi?

L’ascesa della birra artigianale e dell’intero movimento ci ha abituati a novità produttive, con offerte e varietà sempre più vaste e che spesso hanno accompagnato la crescita dei birrifici anche dal punto di vista strutturale. Molti produttori, una volta nati e affermati, si sono ritrovati a scegliere cosa “fare da grandi”: come qualsiasi impresa che si rispetti, l’interrogativo che è d’obbligo porsi verte sugli obiettivi di media-lunga durata e sulle modalità di espansione del proprio mercato. Verrebbe spontaneo pensare che una crescita dimensionale vada di pari passo con la crescita degli investimenti, perlomeno una volta affermato e consolidato uno standard produttivo, peccato però che investendo ci si trovi anche di fronte a nuove sfide che spesso richiedono un cambio di paradigma produttivo con conseguente riassestamento della qualità da riacciuffare in breve tempo (pena l’inizio della fine).

Per parlare a ragion veduta di come un birrificio scelga la sua taglia produttiva, è utile soffermarsi su quei birrifici con molti (non troppi) anni di vita sulle spalle. Se provassimo a ricordare il clima, i consumi e i trend di una decina di anni fa, verrebbe facile ripensare a come per molti birrifici l’obiettivo fosse quello di crescere e attrezzarsi in vista di un obbligato aumento della produzione, per abbassare l’incidenza dei costi sul prezzo di uscita della birra e così competere, soprattutto internamente, al segmento craft. Le strade erano due: partire già grandi soffrendo i vuoti produttivi per poi stare comodi, oppure partire piccoli e sperare che si avessero in seguito problemi di sovraccarico tali da rendere conveniente il passaggio alla taglia superiore. Se nel primo caso la crescita si trasformava in imperativo, nel secondo si traduceva in un certo comportamento da “lavoro e il resto può attendere”. Mentre chi ha puntato subito sul futuro ha dovuto interfacciarsi con il mercato concorrenziale e con i prezzi tirati al ribasso da competitor importanti, coloro che hanno rimandato la crescita probabilmente hanno condotto i primi anni di produzione senza particolari richieste ma anche con una certa libertà produttiva.

VOLUMI E SHELF LIFE
Dotarsi di sale cottura e fermentatori molto grandi comporta sicuramente un risparmio: costi di investimento contenuti per effetto di economie di scala e ore lavorate inferiori (a parità di volumi prodotti com impianti più piccoli) possono essere dei validi motivi per propendere per impianti di dimensioni medio-grandi nel momento in cui si avvia un birrificio. Ma quelle grandi quantità prodotte, quegli ettolitri confezionati e stoccati rappresentano non solo un grande capitale immobilizzato in attesa di una rete vendita da avviare e consolidare, ma anche un enorme punto interrogativo che diventa via via più grande man mano che scorrono le settimane e i mesi. Se il ragionamento è critico per un birrificio appena avviato, lo è meno man mano che la rete vendite aumenta il proprio ritmo. Ma arrivare a regime resta pur sempre arduo, e lo era sia quando la penetrazione della birra artigianale tra i consumatori era ancora bassa, sia ora in epoca di grande saturazione di un mercato in cui non è facilissimo inserirsi. Le ripercussioni sulla durata massima da attribuire al prodotto sono dirette, tanto da condizionare la frequenza di produzione e il funzionamento interno del birrificio. La scelta di volumi produttivi contenuti, paradossalmente, permette sicuramente un avvio più soft, basato su piccole quantità da destinare alle vendite di più acquirenti o dell’intero stock da affidare a uno o pochi partner commerciali, con ricadute importanti sul prodotto birra che così viene consumato più velocemente ed è meno soggetto a fenomeni di decadimento qualitativo per immagazzinamento o per eventuali deficit di qualità. I piccoli batch sono alla base di produzioni da brewpub, che così possono anche permettersi il lusso di ignorare qualche acquirente in nome del consumo interno al proprio bancone: dare ai propri clienti una birra fresca di confezionamento e consumarla in breve tempo assicura certamente un bello stimolo alla produzione continua, con una interessante ricaduta sull’affinamento di ricette vecchie e sulla sperimentazione di nuove birre. Per questi birrifici con mescita diretta, restare piccoli è quasi un imperativo, un manifesto morale, all’insegna di una artigianalità che è anche impegno sociale da condividere e – perché no? – mostrare.

LIBERTÁ
Appare chiaro e logico che batch di grandi dimensioni senza una rete vendite adeguata rischiano di mettere a rischio non solo la solidità economica ma la stessa possibilità per il birraio di produrre frequentemente. Non essendo i magazzini infiniti, c’è bisogno di smaltire quello che si ha prima di procedere a nuovi batch delle birre più vendute: questa situazione è anche vincolante nell’intero processo creativo di ideazione di birre nuove, che rappresentano un rischio a priori in quanto necessitano di tempo, sforzi comunicativi e difficoltà di inserimento. Il lusso che può permettersi un birrificio che decide di restare piccolo o quasi, una volta assicuratosi una rete di vendite adeguata ai propri volumi, è quello di gestire le vendite stesse in base ai propri ritmi di fronte alla sicurezza di poter accontentare tutti quei clienti che quella dimensione più contenuta la rispettano. Un birrificio così può perfino dettare i tempi al cliente stesso, suggerendo prenotazione di birre ancor prima del confezionamento: questo rischio calcolato di andare in “overbooking” stranamente può anche alimentare ulteriore domanda, desiderio e appeal. Quest’ultimo non è certamente sola prerogativa di birrifici di dimensioni piccole, ma sicuramente è più veloce da ottenere con batch piccoli di produttori di taglia medio-piccola e che, anche per questo, non vedono motivo di crescere troppo o di farlo in fretta dato il successo conquistato. La posizione ottenuta, il consenso di consumatori e critica va sempre più accresciuto capitalizzandolo nel modo che si ritiene più opportuno per il proprio modello aziendale, ma fa dormire sonni tranquilli a chi questa ossessione non ce l’ha o può permettersi di non averla nell’immediato.

QUALITÁ
È difficile identificare quale dimensione produttiva si adatti meglio alla volontà di fare qualità, perchè questa di suo è complicata da definire. Senza dubbio più si investe in attrezzature e migliore sarà il controllo e – per estensione – la qualità stessa, ma solo se la definiamo come caratteristica interna al birrificio. In realtà con logiche distributive aggressive dovute a grossi investimenti e costi contenuti, la qualità in parte è delegata a partner commerciali (distributori, GDO) che possono influire negativamente, se non ben istruiti. Fermo restando che l’attenzione al prodotto, dalla produzione, alla fermentazione fino al confezionamento, debba essere elevata, è più semplice per un birrificio piccolo impiegare meno tempo dall’avvio al raggiungimento della qualità desiderata dato che le cotte delle singole birre si susseguono con una frequenza elevata. Questa frequenza, però, se non gestita bene può portare a oscillazioni in termini di continuità, da minimizzare attraverso know-how ed esperienza del birraio.

INVESTIMENTI
Acquistare costose attrezzature, una linea di imbottigliamento, una centrifuga non costituisce di per sé un investimento garantito. Fare i conti con nuovi componenti inseriti in un processo rodato nel tempo, alla lunga, può portare notevoli vantaggi e miglioramenti di qualità, ma sicuramente comporta un periodo transitorio di grande sforzo dello staff nel mettere a punto il settaggio giusto innanzitutto per non influire negativamente sui primi batch e poi per migliorare la qualità complessiva nel più breve tempo possibile. Cosa che un birrificio che resta con il layout di poco diverso da quello con cui è partito non deve affrontare: tutto sta nell’indovinare – o meglio, scegliere – quale sia il volume di produzione ottimale per sfruttare al meglio l’impianto senza andare nè in sofferenza durante i primi anni, né soffrire di claustrofobia in una fase di maturità. Un investimento sbagliato per tempistiche (arrivato troppo presto o che si mette a punto durante un periodo troppo lento) possono pregiudicare anche gli sforzi fatti fino a quel momento, dando vita a problemi che prima non c’erano o alimentando una percezione delle proprie birre inferiore a quella mantenuta fino a poco prima.

PERCEZIONE
Un birrificio di dimensioni medio-piccole, solitamente, non ha la possibilità di stare alla ribalta delle cronache nazionali. O se questo capita, probabilmente non sarà tra i più chiacchierati. La tentazione di raggiungere il gruppone dei più blasonati certamente è stimolante se si recepisce questo obiettivo declinandolo in termini di miglioramento della qualità, ma di certo non lo è se si incarna la voglia di toccare vette di notorietà per pura vanagloria. Al contrario: rincorrere modelli imprenditoriali vicini a quelli di grandi attori che si sono basati su grossi investimenti iniziali può portare a scottarsi se non si è in grado di maneggiare con cura una macchina complessa come quella di un birrificio di successo, che punta sia alla qualità che a contenere il costo del prodotto e che solitamente arriva a questi risultati dopo almeno un decennio di continua ascesa. Questa crescita non è detto che passi necessariamente dalla notorietà su larga scala: la scena americana ci ha abituati al fenomeno di birrifici che, partendo da un forte consumo locale, ingrandiscono sempre più il proprio raggio d’azione arrivando ad occupare infine una posizione di tutto rispetto. In Italia il fenomeno è forse più evidente solo negli ultimi anni, in seguito ad una certa saturazione del mercato nazionale e a una conseguente ripartenza pensando ai luoghi più vicini ai propri consumatori, vecchi e nuovi: locali propri di mescita, brewpub, birre celebrative prodotte per pub di fiducia sono alcune delle frecce all’arco di un birrificio che vuole produrre tanto e tante birre, senza rinunciare alla creatività e alla diversità della propria produzione, investendo sul proprio operato e puntando a costruirsi in modo sostenibile per il futuro prossimo.

Non c’è un modo migliore per costruire un birrificio di successo e spesso non si possono confrontare situazioni molto differenti tra loro in termini di ettolitri prodotti. Sicuramente, però, è genuino includere nel panorama birrario che conta anche quel sottobosco di birrifici di taglia medio-piccola che scelgono di crescere poco o lentamente, perchè quando fanno qualità fanno anche un grande lavoro sul territorio, tra quei consumatori più abituali che magari non hanno tutta questa voglia e questo bisogno di andare oltre la propria provincia per bere bene, ma che vogliono sentirsi a casa con della buona birra al bancone del birrificio del proprio paese.