Diciamola tutta: malgrado l’esplosione di micro birrifici e pub-birrifici in Italia durante gli ultimi 15 anni, il vostro paese è ancora essenzialmente un paese del vino: di viticoltura, di vinificazione e di consumo di vino. Il Belgio è invece per la maggior parte un paese di birra – almeno per quanto riguarda la produzione di alcolici e (ora più che mai) la loro esportazione. Ma, anche con tutta questa birra, il Belgio è sempre stato una grande importatore di vino, per lo più dalla vicina Francia – basta chiedere ad un viticoltore francese quanto sia importante per lui il mercato belga.
Il consumo di birra in Belgio sta purtroppo diminuendo in modo costante, almeno a quanto mi risulta, e questa tendenza non dà segni di rallentamento, mentre le vendite di vino non mostrano invece cenni di flessione. Gli stili belgi più tradizionali sono anche quelli più colpiti: Oud Bruin, Saison, negli ultimi anni anche la resuscitata witbier, ma soprattutto le tradizionali lambic come le oude lambik, oude gueuze, oude kriek e simili.
Ho iniziato a vedere un parallelo con il vostro paese quando questi stili, durante l’ultima metà del secolo scorso, hanno sofferto dello stesso problema che ha colpito – e, apparentemente, ancora colpisce – i vini italiani. Per usare un’espressione tipica inglese si potrebbe dire che danno di sé una flat crop image, un’immagine di coltivazione statica, rurale, rustica, senza particolare finezza – almeno agli occhi dei giovani consumatori.
L’Italia ha da parecchio tempo le sue classificazioni vinicole (DOC e DOCG), e capita spesso che i giovani vignaioli italiani si allontanino da questi modelli vendendo i loro prodotti – a volte molto sperimentali – come vini di territorio, con prezzi che possono essere anche due o tre volte più alti di quelli del loro vicino con vini a DOCG. Ma sarà poi una buona idea? Un vino affinato in acciaio, filtrato, pastorizzato, magari ottenuto da un assemblaggio di vitigni ibridi, sarà mai superiore ad un bel nettare di colore rosso profondo, ricco di tannini e con il suo deposito di acido tartarico nella bottiglia?
Lascio aperta la questione del vino italiano e passo invece ad illustrarvi la mia opinione sul mondo delle lambic. La lambic, anzitutto, è una birra a “fermentazione spontanea”, che vuol dire che nessun lievito dev’esservi mai aggiunto. E’ chiaro che per fermentare il lievito è necessario, ma questo si trova naturalmente negli ambienti del birrificio. Non solo il solito Saccaromyces cerevisiae, ma anche bestie strane come il Lactobacillus, il Pediococcus, il Kloeckera e, ovviamente, il Brettanomyces, il più grande spauracchio di tutti birrai.
I burocrati che stanno dieto le scrivanie della commissione europea e di altre del genere mangiano prodotti Nestlè, Unilvere, Kraft, Danone e pranzano da McDonald’s. Vorrebbero controllare l’intera catena alimentare iniziando dai coltivatori di grano, lo stesso mangiato dai polli che poi creano il paciume usato per fertilizzare il terreno dove si coltivano orzo e luppolo, ingredienti necessari a produrre quella birra che più tardi ordini al bar. Le persone che comprano direttamente dall’allevatore di capre locale sanno benissimo che il suo prodotto è di qualità altissima: al primo ridicolo cenno di crisi ecco però che saranno i suoi animali i primi ad essere uccisi, mentre la televisione creerà allarmismo per lo starnuto sospetto di un contadino del posto.
Ora, da quanto scritto sembrerebbe che visitando uno dei birrifici che ancora producono lambic o gueuze il rischio sarebbe di ritrovarsi in un posto perso nel tempo, in cui entrare come minatori con la lampada in testa e il kit di pronto soccorso a portata di mano – ovviamente una volta fatte tutte le vaccinazioni del caso. Si rimarrebbe delusi: anche i birrifici più tradizionali hanno ormai adottato sistemi moderni. Nessuna brasserie sembrerà più pulita di Girardin, e per mantenerla così non ti faranno mai entrare dentro. Frank Boon ha gallerie di tubi di legno che ti rubano il fiato, ma nel retro dell’edificio il suo kriek fermenta in serbatoi di acciaio controllati da computer mentre lui monitora costantemente i livelli di tutti i tipi di microflora per dirigerli nella direzione voluta.
Anche il birrificio più “tradizionalista” di tutti, il Cantillon nella periferia di Bruxelles, pur con il suo modo discreto di fare sta sperimentando, utilizzando luppoli americani come Cascade e Amarillo a dispetto del vecchissimo detto per cui l’acidità del lambic non soffre dell’amaro del luppolo, e che i produttori vorrebbero unicamente preservare le qualità del luppolo utilizzato, non il suo aroma. In verità Jan Van Roy, mastro birraio a Cantillon, ammira la natura fruttata di questi luppoli, i cui aromi di bacche e frutti esotici hanno trovato sempre di più posto nelle lambic del birrificio.
Sapete però di che cosa non mi fido? Non mi fido di quanto accade a Zuun, dove esiste un birrificio – con ogni probabilità approvato dall’UE – che nessuno tranne gli impiegati ha mai visto dall’interno, che produce birre che hanno sempre meno a che vedere con quelle che ancora vengono prodotte nello showcase di Henegouwenkaai, il centro di taglio Lambic che i visitatori di InBev possono visitare. E capirete bene che se tutta la birra è tenuta nascosta dietro a un ginepraio di saldature, condotti, rubinetti e indicatori di pressione viene meno il contatto diretto con la stessa. Cosa che, a mio avviso, vale anche per le persone incaricate di produrla. Ecco che allora divento diffidente, forse anche perché mi porto dietro la maledizione di una persona di vecchio stampo: il senso comune.
Quindi, se avrete occasione di visitare il nostro paese, non perdetevi le belle Pajottenland e Anderlecht, dove troverete quei birrifici produttori di lambic dai nomi esotici come F. Boon, Cantillon, De Cam, De Troch, Drie Fonteinen, Girardin, Hanssens, Lindemans, Mort Subite, Timmermans e, perché no, anche Belle-Vua. Guardate, degustate, e lasciate al vostro naso, alla vostra bocca e sopratutto al vostro cuore il compito di dirvi cosa è corretto e cosa no.
di Joris Pattyn