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Il meraviglioso mondo di Oud Beersel: intervista a Gert Christiaens

Il lambic è sicuramente una birra che viene da lontano, quella che i sociologi chiamano una “resistenza culturale”. Per realizzarla, birraio e natura devono lavorare in grande collaborazione. È il birraio a preparare il mosto secondo una ricetta ormai codificata, ma è la microflora locale ad apportare lieviti e batteri necessari alla trasformazione. Infine birraio e natura lavorano insieme nella gestione della fermentazione, lunghissima, obbligatoria- mente in legno, nella quale questo stile così sfaccettato matura le sue caratteristiche distintive. Il lambic può essere “giovane” o “vecchio”, arricchito da ciliegie e ulteriormente maturato per realizzare le kriek, con l’aggiunta di lamponi per le framboise, o assemblato per ottenere le geuze. Solo le birre che seguono determinati dettami e che vengono prodotte all’interno della zona del Pajottenland (a sud di Bruxelles, lungo la valle della Zenne per circa 30 km) possono essere denominate lambic. All’interno di questa ristretta zona si trova Beersel, un piccolo paese che ospita alcuni dei 12 produttori di lambic tradizionale ancora in attività. Uno di questi è Oud Beersel, birrificio fondato nel 1882, chiuso nel 2003 dopo quattro generazioni di gestione da parte della stessa famiglia e coraggiosamente rilanciato da due giovani ragazzi nel 2005. Uno di questi ragazzi è Gert Christiaens, che abbiamo intervistato.

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Prima di essere produttore sei un grandissimo appassionato di lambic, anche dal punto di vista storico locale. Come nasce la tua passione e la voglia di diventare produttore?
La mia passione per le fermentazioni spontanee nasce nella mia giovinezza. La mia famiglia infatti è di un comune vicinissimo a Beersel e, benchè i miei fossero amanti soprattutto del vino, tenevano sempre in cantina qualche bottiglia di geuze o kriek per fare assaggiare agli amici in visita qualcosa di tipico. Un po’ per disponibilità un po’ per lo spirito di contraddizione che i figli hanno verso i genitori, mi sono appassionato a queste birre, fino a farle diventare parte della mia quotidianità. L’idea di rilevare il birrificio nasce da una sorta di necessità mia e dalla voglia di non perdere l’enorme capitale culturale, sia della tradizione che del birrificio in sè, fondato nel 1882. Seppi della chiusura del birrificio nel 2003 nel bar dove andavo di solito a Bruxelles: quando ordinai la mia solita geuze, di Oud Beersel ovviamente, il padrone mi disse che quelle sarebbero state le ultime bottiglie poiché il birrificio aveva sospeso l’attività. La notizia mi dispiac- que tantissimo, tanto che decisi di cercare il numero di telefono sulle pagine gialle e chiamai. A rispondermi fu Henri Vandervelden II, ormai quasi ottantenne, il nipote di Henri Vandervelden fondatore del birrificio. Henri mi spiegò come suo nipote Danny Draps, da una decina di anni succedutogli nel lavoro, si fosse stancato di dividere la sua vita tra il birrificio e il bar che gestiva e avesse ven- duto tutto per diventare postino. Lo stesso Henri Vandervelden era ovviamente molto dispiaciuto, ma, benché ancora proprietario del birrificio, era incapace di prendersene carico nuovamente: era aperta dunque la ricerca di un “successore”. Come detto mi premeva continuare la tradizione e salvare il birrificio: quando esso nacque vi erano circa 300 produttori di lambic in regione, con la sua chiusura ne sarebbero rimasti solo nove, non potevo permetterlo.

Come hai imparato a produrre lambic?
Per prima cosa mi iscrissi a un corso sulla produzione di birra a Gent, dove ovviamente mi insegnarono a realizzare alte e basse fermentazioni ma non fermentazioni spontanee. Poi tra il 2003 e il 2005 ho imparato da Henry come realizzare il lambic, come gestire le botti in legno e come realizzare i blend, in modo da poterne conservare la conoscenza, il tutto sempre mantenendo il mio lavoro nelle telecomunicazioni. Nello stesso periodo ho anche sviluppato il piano finanziario: un birrificio che produce lambic ha infatti bisogno di molto tempo per cominciare a produrre. Quindi, nel frattempo avevamo bisogno di entrate. Così nasce, nel 2005 la Bersalis Tripel, una birra da 9,5% collegata al mondo dei lambic dalla presenza di fru- mento e dalla rifermentazione in bottiglia con lieviti selvaggi, tutt’ora in produzione. La Tripel ci è servita anche per mantenere il nome Oud Beersel attivo nel mercato e per ricreare la rete distributiva. Grazie a questo investi- mento, nel 2007 è stato possibile presentare la nostra geuze e la nostra kriek. Da quel momento sono diventato birraio a tempo pieno, anche se il primo stipendio sono riuscito a darmelo solo nel 2009!

Questa si chiama dedizione!
Eh sì, credo che la passione per il proprio lavoro sia importante in ogni settore, ma con prodotti come questo se non ti dedichi interamente è impossibile raggiungere risultati di alto livello. Se è vero che nel mondo della birra non si fanno soldi in fretta, nel lambic il valore si crea nello spazio di generazioni. Non mi sento neanche di dire che ho fatto di un hobby un lavoro perché il mio non è un lavoro, ma un modo di vivere. L’obiettivo principale per il quale ho deciso di rilanciare Oud Beersel è quello di tutelare e fare conoscere le birre tradizionali lambic. Ovviamente dedico moltissimo tempo al mio birrificio, ma tento di rendermi utile anche in HORAL, l’associazione che riunisce alcuni produttori tradizionali, della quale siamo membri dal 2006.

Quali sono le peculiarità della struttura produttiva di Oud Beersel?
Attualmente siamo a metà tra produttori e assemblatori. Quando ho riaperto, infatti, non era più possibile produrre mosto all’interno del birrificio. Così mi sono trovato davanti ad una scelta su dove investire i soldi, e ho preferito scegliere di investire sulla fermentazione spontanea, l’invecchiamento in botte e in bottiglia, piuttosto che sull’impianto di produzione. A livello pratico non compriamo lambic da altri, semplicemente produciamo il mosto presso un altro birrificio, ovviamente seguendone la ricetta e la preparazione. Già il giorno dopo essere stato prodotto il mosto entra nelle botti del nostro birrificio dove fermenterà e invecchierà sotto il nostro controllo diretto. Questo potrebbe cambiare in futuro, ma abbiamo visto che l’investimento tra attrezzature e stabilimento è decisamente alto, attorno al milione e mezzo di euro, dunque risulta fattibile solo con livelli alti di produzione.

Com’è cambiato il mondo del lambic negli ultimi anni?
Fino a qualche anno fa era molto difficile trovare dei lambic o delle geuze nei bar, adesso invece l’attenzione per questo tipo di birra è cresciuto enormemente. Ad esempio quando ero ragazzo ero l’unico a bere lambic tra quelli della mia età. Adesso invece tanti giovani attorno ai venti- venticinque anni lo fanno. Quando annunciai di voler rilevare Oud Beersel in tanti mi dissero “sei pazzo?! Quelle birre le bevono solo i vecchi, e morti loro non avrai più nessun cliente!”. Il mercato in questo senso è cambiato molto, c’è moltissima spinta da parte dei giovani, con una sorta di gap tra loro e gli anziani. Le persone di mezza età che si avvicinano al lambic sono più rare e di solito si tratta persone attente al buon vivere, aperte e curiose.

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In questo ambito così tradizionale è possibile fare innovazione?
Penso che ogni settore abbia bisogno di innovazione e che l’innovazione sia necessaria per sopravvivere. Nel nostre settore si può fare proponendo nuovi prodotti, ma si può anche innovare nella tecnica di produzione per aumentare la qualità. Noi faremo entrambe le cose. Per ora, come da missione, ci siamo concentrati nella produzione e salvaguardia della tradizione con geuze e kriek, ma non appena ne produrremo una quantità sufficiente abbiamo in progetto di lanciare anche prodotti nuovi. Credo che ci sia un mercato anche per queste birre, nonostante il Belgio sia una nazione tendenzialmente conservatrice. Contemporaneamente dobbiamo mantenere una qualità altissima nella produzione del nostro lambic. Investiamo molto in questo senso attraverso lo studio chimico batteriologico di quanto succede in birrificio. Questo si riflette anche nel carattere delle nostre birre, ad esempio nella loro acidità. Noi cerchiamo di minimizzare l’apporto acetico nelle nostre birre attraverso il controllo delle temperature durante la permanenza della birra in botte o con particolari lavaggi delle botti stesse. Risalta così l’acidità data dalla fermentazione lattica e la birra risulta più elegante e più facile da bere, una sorta di firma del nostro lambic. Questa secondo me è l’evoluzione all’interno della tradizione. La fermentazione spontanea è la prima forma di fermentazione conosciuta dall’uomo ed è stata considerata come qualcosa di misterioso, se non addirittura magico, fino a pochissimi secoli fa.

Che ne resta di quella magia, si è persa con il progredire degli studi e della conoscenza tecnica?
Io penso che la magia sia la fermentazione spontanea stessa. Questa non la cambieremo mai in quanto è stabilito nel disciplinare di produzione del lambic classico che per essere definito tale debba essere frutto di una fermentazione spontanea. Ma è proprio questo il suo segreto, il suo essere inimitabile. Infatti credo sia impossibile riprodurre un lambic inoculando lieviti e batteri, anche dopo attente analisi della microflora interna di un birrificio produttore. È molto più facile lasciare lavorare la natura e cercare di assecondarla o indirizzarla nel miglior modo possibile. La conoscenza dei processi in atto serve proprio a questo, serve solo per migliorare la qualità del prodotto finale creando le migliori condizioni possibili affinché la natura compia il suo corso. Anche le botti in legno sono parte di questa magia, sia per l’apporto di batteri, ma anche per la micro ossigenazione che permette alle nostre birre di continuare a maturare nel tempo. La conoscenza interviene ancora nella stabilità del prodotto e nella sua gestione in bottiglia: più siamo consapevoli di quello che succede maggiore sarà la probabilità di gustare un prodotto perfetto. In passato non era così raro che qualche bottiglia scoppiasse in cantina o che partisse qualche tappo. In generale credo che magia e conoscenza possano andare insieme, almeno nel lambic.

Sei stato per qualche tempo in Italia e parli benissimo italiano (tutta l’intervista è stata svolta in italiano, ndr). Conosci la nostra scena brassicola? Cosa ne pensi?
Sono stato due volte in Italia, la prima per un paio di mesi a Perugia nel 1998, dove ho studiato italiano nella università per stranieri, e poi ho fatto un anno di studi a Parma, tra ingegneria informatica ed economia. In quel periodo la birra di qualità non era diffusa, mentre adesso vedo una grande attività. Quello che noto però è che i birrifici italiani tendono a copiare stili tradizionali di altre nazioni, come il Belgio, la Germania, l’Inghilterra o gli USA. Credo che sarebbe molto importante per il vostro movimento trovare qualcosa di unico e caratteristico, magari sfruttando ancora di più la grande varietà di colture presenti sul vostro territorio e le tantissime conoscenze e tradizioni accumulate nei vari settori della produzione di cibo, primo tra tutti il vino o gli affinamenti in botte. Durante la mia visita a Rimini di quest’anno, in occasione di Beer Attraction, ho avuto la possibilità di provare alcune birre. In generale ho notato la grande presenza di IPA e una tendenza “americaneggiante” nella produzione. Spesso, le birre che ho provato, mi sono sembrate un po’ troppo estreme, concentrate nell’esaltare questa o quella caratteristica piuttosto che un’altra a scapito dell’equilibrio. Penso che sia necessario inseguire un buon bilanciamento. Ad esempio le birre acide in Italia, almeno quelle che ho provato, sono decisamente acide, troppo acetiche. Credo sia necessaria una maggiore ricerca sulla piacevolezza e sulla bevibilità. Dobbiamo sempre considerare però che i vostri produttori, e il settore nella sua interezza, sono in effetti molto giovani.

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Cosa ne pensi dei produttori in Europa e USA che tentano di intraprendere la strada delle fermentazioni spontanee o comunque di fermentazioni miste? Ti interessano i loro lavori?
Certo che mi interessano, sono sempre alla ricerca di buone birre e cerco sempre di capire in che direzione e come si evolve un mercato. Negli USA stanno provando in tanti le fermentazioni spontanee o gli invecchiamenti in botte, in genere però, come detto, le birre sono troppo acide e mancano di equilibrio, anche se ci sono produttori più avanti in questo senso rispetto alla media. Ma capire le tendenze generali è fondamentale. Ad esempio, nel passato, con la diffusione mondiale delle lager industriali, il Belgio è diventato famoso per le sue birre speciali, per lo più ad alta gradazione, come le Dubbel o le Tripel. Ora questi stili di birra sono riprodotti in tutto il mondo, con risultati in certi casi di pari livello rispetto ai produttori storici. In questo senso credo che i nostri produttori abbiano fatto un errore non continuando ad evolvere, a creare prodotti specifici della nostra zona, e questo ha fatto sì che gli altri produttori americani, o italiani per esempio, potessero raggiungerli in termini di qualità. Ovviamente questo discorso non si adatta perfettamente ai birrifici trappisti, ma credo che il concetto sia chiaro. In un futuro anche il lambic potrebbe correre questo rischio. Se da un lato è vero che solo le birre a fermentazione spontanea con determinate caratteristiche e prodotte nelle nostre regioni possono essere chiamate lambic, è altrettanto vero che in USA si stanno compiendo importanti studi sulla fermentazione spontanea e sulla qualità delle loro produzioni e magari qualcuno in un giorno più o meno lontano potrebbe raggiungerci in termini di qualità.