Come gestire al meglio la propria cantina: conservazione, maturazione, invecchiamento

Malgrado il tema sia di notevole interesse anche sul piano commerciale oltreché culturale, le fonti scientifiche e gli studi sistematici sulla conservazione della birra rappresentano l’eccezione e non la regola: oltre al lodevole testo Vintage Beer di Patrick Dawson, a qualche articolo in rete, nemmeno molto approfondito a dire il vero, di altri esperti statunitensi come Garrett Oliver e Andy Sparhawk, la letteratura è infatti pressoché assente e molte pratiche quotidianamente usate in locali e cantine domestiche si basano sull’esperienza empirica di publican e appassionati, esperienza che, se pur preziosa, a volte non porta ai successi sperati e altre ancora conduce alla genesi di vere e proprie leggende prive di solido fondamento razionale. Per provare a mettere ordine e fare un po’ di chiarezza, cominciamo a distinguere alcuni concetti chiave.

  • Conservare correttamente una birra significa farla giungere al momento del consumo nelle migliori condizioni possibili evitando cambiamenti negativi.
  • Maturare una birra vuol dire favorire la sua trasformazione al fine di ottenere cambiamenti organoletticamente positivi.
  • Invecchiare una birra significa sperimentare la sua trasformazione per ottenere diverse esperienze organolettiche ed emozionali favorendo il più possibile cambiamenti positivi.

La conservazione è dunque il concetto di cui ci si deve preoccupare quando si tratta di birre già maturate a dovere e che non beneficiano in alcun modo di una lunga permanenza nella cella del locale di mescita o nella cantina dell’appassionato. Lager a basso o medio grado alcolico, Pils in primis, birre con frumento e birre fortemente contraddistinte dall’aromaticità dei luppoli come le American IPA in tutte le loro varianti, appartengono, per varie ragioni, a questa famiglia. Per quanto concerne le lager, un antico adagio boemo sostiene che debbano stare il più possibile nei tank freddi in birrificio (maturazione) e il meno possibile dentro al fusto nel locale di mescita (conservazione): il basso grado alcolico, l’assenza di rifermentazione e, quindi, di un aggiunta pre-confezionamento di una dose di zucchero e lievito che fungano da guardie del corpo di fronte ad avversità impreviste e, nel caso delle Pils, il ridotto contenuto di zuccheri residui e la volatilità delle fragranze luppolate, portano infatti a una rapida degenerazione della birra finita, con la formazione di indesiderabili aromi di carta bagnata, cartone e francobollo e un appiattimento sui sentori dolci dei malti, con conseguente stucchevolezza nel sorso. Una parziale eccezione è rappresentata dalle wet hop che, come testimonia Eric Toft di Schönramer che ogni anno ne produce una in contemporanea con la raccolta dei luppoli a Tettnang, offrono il meglio di sé a gennaio, ovvero quattro mesi dopo la cotta.

Per quanto concerne le birre di frumento, le proteine che tale cereale contiene in maggior quantità rispetto all’orzo tendono a decadere in tempi piuttosto rapidi (nell’arco dei sei mesi) lasciando la birra non solo più limpida nell’aspetto ma anche più “magra” e senza più le caratteristiche sensazioni boccali setose legate alla presenza del frumento. Inoltre, i lipidi di cui il grano è piuttosto ricco (decisamente più dell’orzo) favoriscono l’insorgenza di sentori stantii e rancidi. Anche in questo caso possono accadere singole eccezioni: ricordo un panel in cui assaggiai una Gose, già molto buona di base, che con più di un anno di cantina aveva acquisito elegantissimi sentori simili ad alcune tipologie di champagne, in questo caso il lavoro dei lactobacilli inoculati era sicuramente stato cruciale.

Infine, le birre fortemente incentrate su aromi e sapori dei luppoli di oltreoceano sono soggette alla rapida decadenza degli effluvi di queste varietà del verde cono: le varietà più in voga di provenienza americana ed oceanica hanno infatti un’elevata presenza di oli essenziali (le sostanza aromatiche, molto volatili) ma anche un rapporto tra alfa e beta acidi (le componenti amaricanti) nettamente sbilanciato a favore dei primi, a differenza di ciò che avviene per molte tipologie mitteleuropee e inglesi in cui il rapporto tra alfa- e beta- è prossimo o pari a 1:1. La schiacciante prevalenza di alfa acidi porta invece queste birre a perdere rapidamente aromi e sapori legati ai luppoli spogliandole così della loro caratteristica distintiva e lasciando il terreno al dominio delle sensazioni maltate che, nell’ottica del birraio, dovevano servire solo da retroscena per lo spettacolo.
La degenerazione aromatica e gustativa è tanto più rapida quanto più le modalità di conservazione sono scorrette e ciò mette in gioco diversi fattori:

Il recipiente
Le bottiglie, per ragioni legate alla volumetria (qualunque appassionato di vino vi confermerà che i magnum invecchiano meglio delle bottiglie più piccole), al pick up di ossigeno e alla sua incidenza nello spazio di testa nonché al metodo di chiusura, hanno tempi di degenerazione molto più rapidi rispetto al fusto. Il tappo riveste un ruolo fondamentale e il forse poco romantico tappo a corona si rivela più efficace sia del sughero che, ancor di più, del tappo a macchinetta, che non a caso è usato essenzialmente in Mitteleuropa per birre dalla shelf life dichiaratamente breve. Anche tra i fusti ci sono però delle notevoli differenze intrinseche: key keg con sacca e fusti in acciaio sono più affidabili dei fusti in plastica senza sacca, in particolare i petainer che tendono a incamerare più aria dall’attacco rispetto ad altre tipologie di keg. Qualunque publican d’esperienza sa che è impossibile staccare un petainer per poi riattaccarlo dopo qualche giorno perché l’ingresso di ossigeno pregiudicherà invariabilmente il prodotto. Anche a fusto chiuso il petainer mostra la sua fragilità: in preparazione per la riapertura dopo il lockdown ho dovuto, ahimé, gettare 30 litri di pils boema perché il fusto, pur chiuso e conservato a una temperatura tra i 10°C e i 13°C, aveva probabilmente avuto uno scambio con l’ambiente esterno. La birra non aveva sentori ossidativi e, anzi, sia al naso che in bocca presentava ancora una lodevole fragranza luppolata e non vi era nessuna traccia del diacetile caratteristico dello stile e presente in un identico fusto aperto e consumato prima della chiusura forzata: il dichetone vicinale era stato evidentemente riassorbito del tutto grazie alla lunga maturazione, ma al gusto si era sviluppata una spiccata acidità citrica che poteva renderla piacevole per qualche consumatore ma sicuramente non vendibile (almeno nel mio locale) come Bohemian Pils.

Temperatura
Come insegnano la criogenica e tutta la filmografia di fantascienza riguardo alle ibernazioni: più la temperatura è bassa più l’evoluzione della birra, come di qualunque altro prodotto “vivo”, rallenta. Ciò significa che, fatta salva la necessità di evitare che il prezioso liquido ghiacci, più bassa la temperatura migliore è il risultato? Se si parla schiettamente di conservazione è indubbio che un frigo sia sempre più affidabile di una cantina, per quanto suggestiva e romantica quest’ultima possa essere. Se invece si sconfina nel territorio della maturazione di cui si parlerà poco oltre, una temperatura troppo bassa va a rallentare un’auspicabile evoluzione positiva. Ma cosa significa temperatura “troppo bassa”? Il riferimento aureo è la temperatura di fermentazione, al di sopra della quale i lieviti (stiamo ovviamente parlando di birre non filtrate e non pastorizzate) si riattivano generando aromi e sentori che possono non essere piacevoli, specie se il luogo in cui la birra è conservata è soggetto a sbalzi di temperatura che causano continui stop and go. L’inevitabile conseguenza è che le alte fermentazioni siano più facili da conservare a livello domestico, perché un ambiente stabilmente sotto i 18-20°C è più che sufficiente: Patrick Dawson ha effettuato delle lunghe sperimentazioni che lo hanno portato a concludere che l’optimum sarebbe poter conservare a una temperatura inferiore di circa 5°C a quella di fermentazione, quindi, per le ale, a 13-15°C, un range significativamente affine ai 13°C raccomandati per conservare i vini rossi. Uno studio enologico citato da Dawson testimonia infatti che, ponendo come punto di riferimento un vino stoccato un anno a 13°C, se la temperatura sale a 15°C un anno incide come un anno e mezzo o poco meno, con un anno a 23°C si hanno trasformazioni chimiche equivalenti a una permanenza tra i due e gli otto anni alla temperatura ottimale e, infine, un anno a 33°C pesa sul malcapitato vino come un periodo compreso tra quattro o addirittura cinquantasei anni a una temperatura di 20°C inferiore. Dalle sperimentazioni che l’autore ha effettuato su birre passibili di medio-lungo stoccaggio si ricavano ulteriori informazioni utili: la stessa birra conservata a 13°C e a 21°C ha mostrato delle percepibili differenze che però non hanno convinto Dawson a “correre a spendere mille dollari per comprare un frigo cantina” (cit.). Un cambiamento di temperatura tra i 18°C e i 30°C sulla stessa etichetta ha invece un impatto molto forte. La soglia dei 22-25°C pare quindi essere particolarmente significativa e, del resto, la regola della temperatura di fermentazione sopra esposta conferma che in un ambiente così caldo si riattivano anche i lieviti, tipicamente appartenenti a ceppi belgi, contraddistinti da una più alta temperatura di innesco. “Ficcando lo viso a fondo” nella chimica soggiacente a queste mutazioni, è l’ossigeno residuo che interagisce sia con gli acidi grassi che con le melanoidine presenti nei malti, in particolare scuri. L’ossidazione degli acidi grassi porta a sentori rancidi e stantii ed è favorita dalle temperature più elevate che conducono a una rapida degenerazione, mentre l’interazione tra ossigeno e melanoidine conduce alla formazione di aldeidi con aromi piacevoli di Porto e Xeres ed è favorita dalle temperature inferiori a 15°C e dalla presenza di malti scuri. Malti scuri ed elevato grado alcolico sono fattori che creano anche un buon potenziale di invecchiamento di una birra, tema molto complesso che merita una trattazione a parte, ma uno stoccaggio a temperature troppo elevate porta alla generazione dell’etil furfuril etere, un alcole responsabile degli sgradevoli sentori da vino di poco prezzo, di pout pourri di spezie da vin brulé e di solvente che si possono riscontrare in forti birre scure conservate in ambienti troppo caldi. Il nemico etil furfuril etere nasce in questo caso dall’interazione tra l’alcol etilico prodotto dalla fermentazione e l’alcol furfurilico generato dalle reazioni di Maillard innescate

Posizione e movimento
Come qualunque appassionato dovrebbe sapere, le bottiglie di birra vanno conservate in posizione verticale per ottimizzare la separazione dei residui di lievito o di luppolo in caso di massiccio dry hopping. L’unica eccezione è rappresentata dalle fermentazioni spontanee, che vanno conservate in orizzontale al fine di ottimizzare il contatto del liquido con i lieviti e la flora batterica e mantenere il tappo in sughero bagnato, evitando perdite anche rilevanti a causa dell’evaporazione nel caso non sia presente un ulteriore tappo a corona. Anche i fusti vanno conservati rigorosamente in verticale e andrebbe evitato il più possibile qualunque movimento nelle ore immediatamente precedenti l’inizio della spillatura: il publican Michele Galati dell’Abbazia di Sherwood di Caprino Bergamasco ha sempre raccomandato di posizionare il fusto fermo e alla temperatura a cui verrà spillato (quindi, nel caso di spillatura a fusto caldo, alla temperatura del locale) almeno 24 ore prima di iniziarne il servizio al fine di evitare rimescolamenti del residuo che influenzerebbero in negativo sia l’agilità del servizio che le caratteristiche organolettiche della birra. Un ricordo personale sullo stesso tema riguarda un altro publican di lungo corso come Umberto Benini del Birratrovo di Como: anni fa con alcuni amici concludemmo un ameno pomeriggio invernale nel suo locale con l’assaggio di una celebre birra di Natale italiana che, al momento, non ci entusiasmò. Umberto ci disse “è normale, ho appena trasportato il fusto dalla cantina a qui percorrendo le scale a piedi, l’ho mossa, se tornate prima della chiusura ve la faccio riassaggiare”. Dopo un paio d’ore tornammo al Birratrovo e appurammo che il publican aveva pienamente ragione: la birra si esprimeva al suo meglio, con una differenza davvero rilevante rispetto a poco prima. L’eccezione è rappresentata dalla sporadica necessità di capovolgere il fusto e spillarlo inizialmente “al contrario” proprio per rimescolare il prodotto ed evitare un’eccessiva differenza tra le birre spillate all’inizio e alla fine del recipiente: è uno stratagemma che viene tradizionalmente adottato per le Hefeweizen, come mi ha raccontato Andrea Ambrosini dell’Ein Mass di Costa di Mezzate (BG) e che un giovane publican scrupoloso quanto sempre attento all’hype come Filippo Garavaglia del milanese Bere Buona Birra ha riciclato per le prime NEIPA italiane, quando i birrai di casa nostra non avevano ancora preso tutte le misure necessarie per infustare al meglio questo nuovo sottostile.

Nel concetto di maturazione, ovvero di sfruttamento del tempo per ottenere un’evoluzione positiva ricadono invece le pratiche tradizionalmente impiegate nei birrifici, come la lunga lagerizzazione al freddo nei tank che il manuale della bassa fermentazione raccomanda, o nei pub, come il venting praticato ai cask britannici per condurre la birra al suo picco organolettico prima di servirla. A questo proposito, si è potuta ammirare in questo periodo la splendida limpidezza di alcune Keller italiane che la forzata permanenza nei tank durante il lockdown ha condotto alla loro piena maturazione, è stato interessante notare come anche gli aromi e i sapori dei luppoli, di varietà schiettamente continentali, abbiano beneficiato di questa ottimale “ripulitura” delle birre. La conservazione dei fusti a 10°C anziché a 4°C, che alcuni produttori artigianali di lager praticano, ha proprio la funzione di favorire una simile evoluzione positiva quando, a causa della pressione del mercato, è necessario accorciare un po’ i tempi di lagerizzazione. Per birre ad alta fermentazione più alcoliche e complesse come Belgian Strong Ale, Quadrupel, Imperial Stout e Barley Wine rientra quindi nei compiti del bravo publican favorirne la maturazione conservandole, magari nelle settimane precedenti al servizio, a temperature pari o leggermente inferiori a quelle di fermentazione anziché nella cella frigorifera in cui possono invece riposare anche per mesi o anni con la garanzia che l’evoluzione gustativa sarà, per così dire, ibernata.

Semplici basi scientifiche e conoscenza del singolo prodotto sono dunque fattori discriminati per servire una birra al suo meglio. Alla ricetta si può aggiungere anche un pizzico di audacia e la regola aurea di assaggiare sempre prima di buttare via qualcosa: subito prima del lockdown avevo aperto un fusto di un’ottima Tripel italiana e, come ho fatto con tutte le altre birre, ne ho verificato le condizioni nei giorni antecedenti alla riapertura. Ebbene, la permanenza nel polykeg aperto a una temperatura di circa 15°C per più di due mesi non solo non aveva rovinato la birra ma l’aveva migliorato, suscitando l’entusiasmo del piccolo panel di colleghi e clienti affezionati che avevo convocato per la verifica, rigorosamente alla cieca, delle birre rimaste.