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Brewpub is the new black: è boom dei locali gestiti da birrifici

Raggiungerlo non era affatto scontato e men che meno doveva esserlo stato quella prima volta, abbarbicato com’era in una radura nascosta oltre la lingua di asfalto che lo collegava al piccolo paese. Fu lì che avvenne il mio primo vero incontro con la birra artigianale italiana, a Rodero, un piccolo villaggio letteralmente a un passo dal confine svizzero, dove allora si trovava la sede produttiva del Birrificio Bi-Du di Beppe Vento. Il birrificio in realtà era qualcosa di diverso, di più di un semplice luogo di produzione, era un brewpub, un luogo dove la birra non veniva solamente prodotta, ma anche servita e consumata all’interno del locale annesso. La memoria oramai si perde nella rincorsa di quei ricordi lontani, nottate fradice di fiumi di ottima birra, la passione ardente e carbonara degli albori, infinite discussioni su malti, luppoli, lieviti e tutto ciò che ruotava attorno al preistorico e minuscolo mondo birrario dell’epoca. Era un modello culturalmente sconosciuto e innovativo per l’Italia birraria di allora, eppure l’incontro con quella realtà avvenne in maniera assolutamente naturale, come naturale ancora oggi, dopo quindici anni, mi appare quel modello di business e quella maniera di inserirsi nel mercato della birra artigianale. È piuttosto singolare pensare come i più importanti birrifici pionieri della primissima ora, Baladin, Birrificio Italiano e Birrificio Lambrate su tutti, siano partiti sostanzialmente in contemporanea con il modello commerciale del brewpub e come questa scelta sia poi stata sostanzialmente trascurata da moltissimi dei birrifici di successo che li hanno seguiti, i quali hanno puntato per la maggior parte sulla produzione della birra escludendo la mescita diretta.

Anni dopo, durante il mio primo viaggio negli Stati Uniti, ebbi modo di vedere come quel modello, che negli anni dell’espansione del fenomeno artigianale in Italia aveva avuto poca fortuna, era invece la colonna portante del mondo craft americano. Di fatto ogni birrificio negli States nasceva e prosperava mantenendosi come brewpub, come locale che produceva le proprie birre e le vendeva nel pub o ristorante. Era davvero un’impresa trovare qualcuno che si dedicasse esclusivamente alla produzione e anche in quel caso la tap room, vale a dire un banco interno allo stabile per il servizio alla spina attrezzato in maniera più spartana, senza cucina e con orari di apertura ridotti, non mancava mai. Alcuni birrifici avevano avuto più successo di altri e ovviamente le loro birre erano presenti anche al di fuori del proprio brewpub, in negozi e locali, in alcuni casi anche in maniera massiccia, ma il locale-vetrina da cui erano partiti continuava a esistere e a prosperare. Oggi, con la craft beer che è divenuta moda imperante per una ampia fascia di appassionati, le cose sono lievemente cambiate anche là. Alcuni birrifici che nascono per specializzarsi su stili molto particolari come birre acide o Imperial Stout, e che non di rado diventano birrifici di culto, non sempre partono con il progetto del ristorante annesso, che richiederebbe anche birre “più normali” e uno sforzo produttivo lontano dal “core business”. In ogni caso la tap room più o meno organizzata è sempre prevista per la vendita diretta, che siano spine, growler o bottiglie e lattine da asporto, e in ogni caso anche in questa epoca più recente il modello di business “classico” del brewpub resta quello più gettonato per il birrificio che decide di aprire. Le ragioni di questa impostazione ricorrente del mondo birrario americano sono facilmente intuibili. Avere un canale di vendita diretto può assicurare immediatamente uno sbocco alla produzione degli impianti, senza la necessità di sgomitare per trovare il proprio spazio in un mercato che può risultare abbastanza affollato e concorrenziale. Inoltre, la vendita diretta ovviamente permette margini di guadagno ben più elevati. Per questo, in un paese dove il consumo pro capite di birra è ben più alto di quello italiano, dove la popolazione è più numerosa e il mercato molto più ampio, dove l’abitudine a consumare pasti fuori casa è quasi una prassi e la ristorazione è fiorente, aprire un brewpub diviene la scelta più razionale per assicurare solidità al proprio business in fase di start up, in attesa magari di espansioni future. Vendere la propria birra nel proprio locale ha anche un indubbio vantaggio qualitativo: permette di controllare una filiera che si esaurisce in un unico luogo e di proporre sempre un prodotto al massimo della freschezza e della qualità. In un mercato, come quello della craft beer americana, dove ad esempio le fragili birre luppolate da diversi anni la fanno da padrone, questo è un vantaggio tutt’altro che trascurabile. Ed è un vantaggio che farebbe la differenza anche altrove, Italia compresa.

Certamente questo modello di business ha limiti e svantaggi altrettanto evidenti: soprattutto costi maggiori rispetto all’investimento per il solo impianto di produzione. Allestire un brewpub significa aggiungere la spesa per un vero e proprio locale, con voci di costo quali affitto, cucina, allestimenti e personale. Indubbiamente questi fattori possono aver decretato la minore fortuna del modello brewpub in Italia: i rischi sul capitale investito sono maggiori poiché non si può dare affatto per scontato, come può avvenire negli Stati Uniti, di ritrovarsi il locale pieno. In Italia c’è una propensione inferiore a cenare fuori casa e in genere ad uscire, il reddito pro capite è inferiore e i luoghi dove è più probabile raccogliere maggiore successo, le città medio-grandi, hanno anche costi superiori. Negli Stati Uniti è abbastanza normale trovare brewpub e ristoranti in generale piuttosto frequentati durante ogni giorno della settimana e su un ampio arco orario, in Italia questo non accade spesso e per ogni locale. Da noi il costo del personale poi, sicuramente non a causa degli stipendi ma per l’imposizione fiscale e contributiva, è ben più elevato e la flessibilità molto minore. Un brewpub richiede parecchia manodopera e questo ulteriore scoglio probabilmente è risultato improbo per diversi birrifici nati negli ultimi anni.

Meno comprensibile è stata la assenza totale o quasi di tap room in Italia in questi anni. Si tratterebbe in sostanza di allestire all’interno di un birrificio una zona separata dalla produzione, anche senza grandi pretese, in cui clienti e seguaci locali di un birrificio possano trascorrere qualche ora nel tardo pomeriggio e nella prima serata. Nelle tap room, concepite come luoghi dove è possibile esclusivamente bere, non è prevista la cucina e anche il servizio è essenziale, svolto esclusivamente al bancone. Negli Stati Uniti per ovviare all’assenza di cibo a volte sono presenti all’esterno dei food truck. Ovviamente i costi di una tap room sarebbero di gran lunga inferiori a quelli di un brewpub, eppure nemmeno questo modulo, che personalmente amo molto, ha avuto una gran fortuna in Italia. In genere non si è mai andati oltre l’allestimento di un normale spaccio interno con orari di apertura da ufficio, se non più ridotti. Qualche birraio mi ha parlato di diversi problemi burocratici circa la possibilità di allestire in Italia una tap room interna al birrificio, i soliti problemi di vincoli e regole asfissianti all’italiana, nulla però che con pazienza e determinazione non possa essere risolto. Qualcuno anche da noi ci è riuscito, ergo… Gli orari classici della tap room vanno in genere da metà pomeriggio alla prima serata e probabilmente in Italia c’è poca abitudine per una fruizione di questo tipo e su questi orari, qualcosa che da noi si potrebbe chiamare all’incirca aperitivo (ma senza snack). Allo stesso modo, è probabile anche che ci si aspetti che l’italiano medio prediliga locali più attrezzati, più allestiti, più centrali (in genere i birrifici stanno in zone artigianali periferiche). Alcune di queste convinzioni sarebbero tutte da dimostrare, perché qualche sporadico caso di tap room che ha riscosso un buon successo in Italia nonostante queste pregiudiziali esiste. L’impressione è che da noi semplicemente un eccesso di prudenza limiti un po’ le ambizioni, quantomeno in quelle zone d’Italia dove il fenomeno della birra artigianale e la sua comunità sono già radicati.

Qualcuno però, negli ultimi anni, ha pensato a un modello di vendita diretto non distante da quello del brewpub ma strutturalmente diverso: l’apertura di uno o più locali di proprietà, controllati direttamente dal birrificio oppure in società con terzi. Anche in questo caso la logica è chiara: con un birrificio più un locale di mescita è possibile localizzare la produzione in un luogo decentrato, più comodo, economico ed espandibile e posizionare invece il locale dove c’è un maggiore afflusso di pubblico e plausibilmente affitti più elevati, razionalizzando le risorse e aumentando le possibilità di successo del locale e dell’intero business. Naturalmente a fronte di tutto questo ci sono alcuni svantaggi logistici: pensare e costruire il proprio progetto di birrificio come un brewpub permette diverse ottimizzazioni e risparmi nel servizio di mescita all’interno del locale in termini di costi e di tempo di lavoro, ad esempio grazie all’utilizzo di apposite cisterne e all’assenza di distanza fra produzione e vendita, mentre rifornire uno o più locali esterni di proprietà è come rifornire locali terzi e prevede il lavaggio e riempimento dei fusti, il trasporto e la gestione degli stessi all’interno del locale. Nei locali di proprietà la marginalità sulle vendite resta in ogni caso quella, più elevata, dei brewpub e per questo motivo alcuni l’hanno ritenuta una scelta conveniente.

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