Birra e bicchieri: la pinta romana
Tra le più recenti derivazioni dello shaker, troviamo la cosiddetta pinta romana. La comparsa di questo spin off della pinta – caratterizzato da una geometria sostanzialmente identica all’originale, ma ricalibrata (in diminuendo) su una capienza di 37 cl, in luogo dei canonici 47 – testimonia ben quattro tendenze, che hanno connotato la scena nazionale dell’ultimo quindicennio in misura più o meno profonda.
La prima è rappresentata dall’influenza in modo via via via crescente, dell’american way of brewing sul mercato italiano, che ha determinato un processo di cambiamento collettivo dei gusti che, proprio a Roma, ha avuto il suo epicentro e il suo punto di propagazione. Inevitabile insomma, che se l’Urbe un simbolo avesse dovuto esprimere, era destinata a farlo attingendo dai modelli del repertorio iconografico Usa.
Secondo aspetto: il ruolo occupato dalla realtà romana nello sviluppo del movimento artigianale e nella geografia dei consumi birrari stessi sulla carta della Penisola. In effetti se avesse dovuto esserci in Italia una città candidata a coniare una sua specificità, anche nel campo dell’oggettistica, ebbene, quella non avrebbe potuto essere se non Roma.
Terzo punto: le ragioni della praticità (robustezza, impilabilità, facilità di recupero dai tavoli e di trasporto al lavaggio…) secondo un meccanismo di proporzionalità diretta rispetto all’aumento dei consumi stessi. In pratica: locali più affollati inducono a utilizzare strumenti di più semplice fruizione e di maggiore maneggevolezza.
Quarto aspetto: la propensione ad alleggerire il bicchiere riducendo le quantità (e quindi l’impegno assunto dal cliente nel consumarne il contenuto), a fronte di fattori quali il costo del prodotto e la possibilità di molteplici assaggi in locali con proposte molto variegate.