Birra e bicchieri: la pinta americana
Shaker o non shaker? Questo è il problema… Sì, proprio alla pinta americana (quella da poco meno di mezzo litro: 473 ml e spiccioli, per l’esattezza, pari a 16 once americane) è dedicata questa puntata della nostra serie di post su birra e bicchieri. Un formato vincente, molto utilizzato per la sua praticità; solido e impilabile, questo tronco di cono semplice semplice (silhouette svasata e fianchi rettilinei, senza bombatura alcuna) non penalizza troppo i prodotti più preziosi (che pure meriterebbero vetri di altra geometria) e, contemporaneamente, garantisce supporto organolettico alle tipologie meno dotate di raffinatezza sensoriale, anche (ad esempio) coadiuvando la formazione e la tenuta della schiuma in certe basse fermentazioni. Insomma non è un bicchiere da degustazione ma in birreria è pratico e versatile.
Ma andiamo per ordine; e ricostruiamo, anzitutto, un po’ di storia. Il nome pinta spetta primariamente a quella britannica (o imperiale): capiente 0,568 litri (e spiccioli, pure qui), contrassegnata da una vicenda personale che ne ha visto derivare, nel tempo, diverse varianti. Quella americana, intendendo la definizione in sé, nasce come misura di capacità, più che come manufatto da bevuta progettato e realizzato quale specifica proiezione di quella misura. Anzi, il bicchiere che oggi indichiamo con la definizione di US pint ha una genesi che parte da punti ben lontani rispetto alla pratica e alle esigenze del sorseggio.
Vede infatti la luce come versione in vetro (ridotta alla metà, nelle dimensioni) dello shaker da cocktail: rappresenta insomma lo spin-off di un utensile per mixare bevande. Ma s’impone tra le simpatie dei consumatori dopo la fine del secondo conflitto mondiale, quando, avendo il proibizionismo falcidiato le schiere dei piccoli marchi brassicoli e essendo rimasti perciò in piedi soprattutto grandi gruppi (Schlitz, Anheuser-Busch, Coors e altri), questi ultimi cannibalizzano il mercato con prodotti estremamente piatti: prodotti che non pretendevano bicchieri dal design troppo mirato o performante (magari pure delicati e dispendiosi). No, in quel contesto, vinsero le ragioni della praticità; inducendo a puntare su un oggetto che avesse qualità più funzionali all’impiego richiesto, di carattere spiccio e spartano: costo contenuto, durevolezza, stabilità sul piano d’appoggio, facilità (lo si è detto già all’inizio) a essere impilato. Così lo shaker prima affiancò e poi soppiantò i modelli predecessori e concorrenti, coppe e mugs, tra l’altro normalmente più piccoli rispetto alle 16 once.
Ebbene, il punto è che la pinta Usa, affermatasi nei decenni dell’omologazione (e dell’egemonia da parte delle Lager fotocopia l’una dell’altra), è riuscita a costruirsi nel secondo Novecento una posizione dominante così incrollabile, da attraversare indenne le fasi dell’avvento dell’esperienza craft e della sua ascesa irresistibile: anzi, ha legato a doppio filo la propria immagine alle stesse birre artigianali, nonostante queste ultime interpretassero (e interpretino) una filosofia diametralmente opposta a quella dell’uniformazione organolettica, declinando stili contrassegnati da profonde peculiarità e differenze.
Ora il connubio (pur strano che sia, in effetti) è durato poco meno di mezzo secolo buono buono (dalla fine degli anni Settanta a oggi), senza che nessuno sollevasse eccezioni: invece, dopo il 2010 grossomodo, le voci di dissenso si sono fatte via via più frequenti e autorevoli proprio internamente al movimento delle etichette indipendenti, includendo, nomi di grande peso come opinion-makers (tra cui quello di Garrett Oliver, fondatore della Brooklyn Brewery), fautori della riappropriazione di formati differenti (e più ambiziosi) per la somministrazione di differenti tipologie birrarie, in luogo della genericità dello shaker.
Shaker il cui tramonto è tuttavia ancora ben lontano: la validità e i consensi di cui quest’esemplare gode resistono, infatti, più che efficacemente. In particolare perché la sua linearità e la sua architettura continuano a sembrale l’ideale per il consumo di Ales e Lagers a stelle e strisce: birre (dalle Apa alle Double Ipa, passando per le Ipl) votate a sparare tutta e subito, senza risparmio di forze, l’intera riserva delle proprie cartucce olfattive incentrate sul luppolo. E dunque, sebbene messa in discussione, la diffusione di questo modello è tuttora ampia; in special modo laddove si produce e beve, massicciamente, ispirandosi alle tipologie statunitensi: tra l’altro (oltre che, ad esempio, in Scandinavia) proprio nella nostra Capitale, dove addirittura quella americana ha generato a sua volta uno spin-off, la cosiddetta pinta romana, dalle dimensioni ulteriormente ridotte, pari a 33 centilitri.