Verona spumeggiante: beer tour dai Monti Lessini alla città dell’amore
Lessinia era bellissima. La più bella delle Alpi e la bellezza si sa, lascia traccia. Traccia nei cuori della gente che la ammira, ma anche in quelli di chi la detesta, perché nel bello degli altri vede la testimonianza presunta di una propria mancanza.
E se quella bellezza poi si conferma in un amore beh, seguono brutte cose. Lessinia amava Montebaldo, dagli occhi blu profondi come il Lago di Garda in cui si specchiava e questo non lo si poteva accettare. Non si può essere così impudenti da essere felici costruendo un’unione, dove ci sono da sempre differenze e divisioni. Quei due, meritavano di essere puniti. E così le altre principesse delle Alpi, cieche d’invidia, li divisero creando la Val d’Adige, come un solco perentorio, un monito definitivo.
Ma le parole d’amore può portarle anche il vento che non ha confini e Montebaldo decise di affidare proprio a lui, al vento, le canzoni scritte mille volte per la sua bella. La leggenda narra che la coppia poi ebbe tre figlie stupende: la Valpantena, la Val d’Illasi e la Valpolicella. Ho scelto di riportarvi a modo mio questa antica storia tramandata dai Cimbri, perché il nostro racconto stavolta si svolge proprio in questa parte di Veneto, forse meno conosciuta di altre, ma in effetti stupenda. Amici birrovaghi, siete pronti? Ci aspetta un itinerario alla scoperta dei birrifici veneti tra la città scaligera, la Valpolicella e i Monti Lessini.
Cominciamo proprio dal Parco Naturale Regionale della Lessinia, per fare il pieno di natura in un contesto che merita la giusta calma. Se potete prevedete di trascorrere qui almeno due giorni. Il motivo è semplice: c’è parecchio da camminare! Per intenderci basta dire che il parco, nato nel 1990, si estende per ben diecimila ettari, nel territorio di quindici comuni e comprende vette che sfiorano i duemila metri. Ok, io sono di parte, ma vi garantisco che si tratta di un vero e proprio paradiso verde incastonato tra le Piccole Dolomiti, la città di Verona e il Monte Baldo. I luoghi da visitare sono moltissimi, per cui ho pensato ad una piccola selezione, giusto per lasciarvi a bocca aperta. Nell’area occidentale del parco, concedetevi un’esperienza unica, con l’escursione alla cima del Corno d’Aquilio.
Un rilievo caratterizzato su un versante da ripide scarpate e boschi che dominano la Valle dell’Adige e sull’altro da verdi pascoli d’altura, dove si trova anche Malga Fanta, strategico punto di arrivo per una gita di giornata. Anche perché a poche centinaia di metri da lì, c’è la notevole Spluga della Preta, uno degli abissi carsici più famosi d’Europa, vero e proprio must per l’esplorazione speleologica. Da non perdere anche se, come me, della speleologia sapete giusto che esiste la parola. Per arrivare in quota considerate circa due ore (9 km di sentiero). Si lascia l’auto ai parcheggi nuovi in Contrada Tommasi, poi si sale fino al Passo di Rocca Pia (storico confine tra veneto e Trentino, strategico durante la Grande Guerra) e da lì inizia una simpatica serpentina che conduce fino ai pascoli seguendo il sentiero CAI n. 234. Altra tappa obbligata sono le Cascate di Molina, oasi naturalistica davvero bella. Un vorticoso torrente si snoda lungo il monte e forma spumeggianti cascate, numerosi salti d’acqua e laghetti. Suggestivo.
Se invece amate la storia antica (ma proprio tanto antica) le Grotte di Fumane sono la meta ideale per voi. Si tratta di alcune cavità presenti negli impervi “vaj” (valli profonde) che confluiscono nella Valle di Fumane: un archivio incredibile dell’evoluzione umana, dove manufatti in selce, resti di mammiferi, focolari, accumuli di rifiuti e dipinti su pietra, documentano la vita dell’Uomo di Neanderthal e dei primi uomini moderni (Homo sapiens sapiens). E poi c’è il mio luogo preferito, che non è precisamente un secret place, visto che attira migliaia di turisti ogni anno e ha ispirato artisti come Dante e il Mantegna che, nel 1496, lo raffigurò in un affresco nel Palazzo Ducale di Mantova. Sto parlando del celebre Ponte di Veja, nel comune di S. Anna d’Alfaedo, un imponente ponte naturale di roccia tra i più grandi e belli d’Europa, alto 29 m e lungo circa 50, la cui nascita è verosimilmente dovuta al crollo di parte della volta di un enorme caverna. Esplorati tutti i sentieri e traversato ogni ponte, di pietra e non, rimane giusto il tempo per un sostanzioso piatto di gnochi sbatùi (uno gnocco a base di acqua, sale farina e burro che viene “grattugiato” direttamente in pentola) e via, verso la prossima meta ed il primo birrificio del nostro itinerario.
Lasciamo quindi i Monti Lessini e scendiamo lungo la Valpolicella percorrendo per circa 40 minuti la SP34, che diventa poi SP1 e SS12 fino a Bussolengo, praticamente alle porte di Verona. Il tragitto offre numerose distrazioni che vi consiglio di cogliere al volo, avendo tempo a disposizione. Si può optare per un pic-nic in vigna con visita in cantina, una giornata alle terme, oppure buttarsi sulla storia. La Pieve romanica di San Floriano merita una deviazione, come Villa Bertani, o quel piccolo gioiello che è il Museo Antiquarium di San Giorgio in Valpolicella. Ma secondo me la vera attrazione locale, enogastronomia a parte, è il Tempio di Minerva a San Rocco. Il sito risale al I secolo d.c. ed è stato recuperato ufficialmente nel 2007, ma pare che fosse già stato portato alla luce nel 1835, sul versante sud del Monte Castelon, dal Conte Giovanni Girolamo Orti Manara, studioso del posto, convinto che ci fosse una relazione tra il toponimo Minerbe (ora San Rocco) e la presenza di un luogo sacro dedicato alla dea romana Minerva. Fu così che il pittore Giuseppe Razzetti, incaricato dal Conte stesso, fece un disegno della pianta dell’edificio. Ma siccome non fu indicato con precisione il luogo del ritrovamento, la cosa finì lì. Anzi, a causa di un metodo d’indagine, per così dire, poco accurato, preziose testimonianze sono andate perdute. Della serie i Conti facciamo i conti che di solito gli viene bene e gli archeologi si occupino dei vecchi sassi, che sanno come trattarli.
E adesso, tutti a Birra Mastino! Il Birrificio, fondato da Mauro Salaorni e Christian Superbi nel 2015, dopo una prima fase sperimentale, dedicata alla produzione di alcune birre per il locale di famiglia di Mauro, si è affermato per costanza e qualità nel panorama craft nazionale. Nel tempo l’attenzione ai concetti di filiera e di terroir nella birra è andato crescendo e, nel 2018, è arrivato il cambio di passo con la conversione a birrificio agricolo, un’azienda che oggi può contare su 15 ettari di campi coltivati ad orzo e 4.000 metri quadri di luppoleto. Tra febbraio e marzo 2021 inoltre, si è completato il trasferimento nella nuova sede produttiva a Bussolengo, per la necessità di avere una location più grande (circa una volta e mezzo la precedente). La struttura prevede un’area hospitality, pensata per accogliere visite guidate, degustazioni, clienti e naturalmente lo shop.
Sul fronte birre, la vocazione per le basse fermentazioni si fa sentire da sempre con risultati che nel tempo hanno proiettato il birrificio tra i maestri indiscussi delle lager italiane. Basti pensare all’ottima 1291, Bohemian Pils da 4.9 gradi, prodotta con la tecnica della decozione tripla, o alla Cangrande, helles bavarese di splendida beva, lievemente luppolata (4.8% vol.), o alla Monaco, appagante amber lager da 5.6% vol. Eppure l’ultima nata nella famiglia Mastino, la Pinka, è una session Ipa da 4.5% di alcol con mono luppolatura Centennial, che porta con sé la tutta la festa agrumata tipica di questa cultivar. Da citare assolutamente, nella gamma delle etichette stabilmente in carta, anche l’iconica baltic porter Teodorico (9% alc.), prodotta a bassa fermentazione con aggiunta di melata di bosco locale: abito impenetrabile, note di cacao, balsamiche e torrefatte, e una beva calda, morbida ed equilibrata. Come alcuni birrovaghi avranno certamente notato la narrazione del birrificio, a cominciare dal nome, prende spunto dalla dinastia Della Scala e da vicende legate ad essa o alla storia medievale di Verona, il che ci offre il gancio perfetto per proseguire il nostro viaggio, muovendo proprio alla volta della culla di mille storie dolci e cruente, romantiche e tragiche, frugali e gustose. Insomma, si va a proprio lì, a Verona.
Tutti conosciamo Verona per i suoi simboli più fascinosi come l’Arena, teatro di eventi memorabili o le vicende narrate da William Shakespeare nella sua tragedia “Romeo e Giulietta” che, oltre ad aver reso Verona universalmente celebre, garantisce un costante afflusso di turisti, desiderosi di farsi un selfie davanti alle location dei vari film a tema, o più responsabilmente attratti dalle parole del grande drammaturgo inglese. Il quale pare si ispirò ad un fatto storico di inizio trecento. Devo aggiungere tuttavia che esiste un’altra opera meno nota del Bardo, “I due gentiluomini di Verona”, del 1623, che racconta una storia in effetti meno edificante e dai risvolti tragicomici, il cui elemento più curioso è che probabilmente si tratta di una sorta di omaggio giovanile Shakespeariano alle vicende di Felix e Felismena in Diana, una raccolta di novelle dello scrittoreportoghese Jorge de Montemayor. Ma Verona è molto di più. Sito abitato fin dalla preistoria, la città venne rifondata dai Romani nel I secolo avanti Cristo ed ebbe sempre un ruolo centrale nel n ord Italia. Importante centro Imperiale, nel V secolo venne conquistata da Teodorico il Grande, soprannominato “Di Verona” nel 1906, grazie alla poesia “La leggenda di Teodorico” scritta da Carducci. Teodorico fu un personaggio di quelli che si portano addosso la storia. A Verona restaurò le mura romane e realizzò altre importanti opere.
Verona fu poi libero Comune nel XII secolo e successivamente passò sotto la dinastia Della Scala, o Scaligeri, che portarono un’epoca di benessere e crescita per la città dal 1262 al 1387. Il primo di cui si ha notizia è Arduino un “possidente di riguardo e mercante di panni” che si autodefiniva Latino. Ne seguirono molti altri, tra cui Mastino, politico autorevole poco incline alla guerra che, pur non avendo titoli nobiliari o grandi quantità di denaro, riuscì a traghettare la città da Comune a Signoria e a garantire un fortunato periodo di pace agli abitanti. Un’era felice rafforzata da Cangrande I Della Scala, forse il signore più illuminato e rispettato della dinastia, al punto che Dante, nell’Epistola XIII gli dedicò l’intera Cantica del Paradiso, nella Divina Commedia. Dopo i Della Scala Verona si dedicò alla Serenissima, passando sotto la Repubblica di Venezia nel 1405; fu poi la volta di Napoleone, degli Austroungarici e infine, la città entrò a far parte del Regno d’Italia nel 1866. Oggi è meta turistica, centro industriale, sede fieristica tra le più note a livello internazionale, facile da raggiungere per la sua posizione e comoda da esplorare nel suo centro storico.
E a proposito di esplorazioni è il momento di guadagnare la seconda tappa birraria in agenda, il Birrificio della Scala. Nel 2016 due amici di lungo corso, Marco Morini e Claudio Dalle Vedove, che si conoscono tra i banchi di scuola, all’Istituto Don Bosco di Verona, iniziano a fantasticare sul proverbiale “facciamo qualcosa insieme”. Marco nel frattempo consegue il titolo di Birraio Artigiano attraverso un percorso di formazione regionale e il gioco è fatto: che si alzi il sipario!
Con Marco in sala cotte e Claudio a curare la parte commerciale, l’avventura del Birrificio della Scala può cominciare. Le sette birre di casa, prevalentemente (ma non solo) ispirate a stili anglosassoni, portano tutte nomi legati alla cultura locale, che si tratti di luoghi, opere o personaggi. Cito volentieri Le Mura, una blanche, con bucce d’arancia amara e coriandolo di 4.7% vol., La Scaligera, una pale ale delicata di taglio british con appena 18 IBU e 4.8% vol., Le Regaste, west coast IPA da 6% alc. e la San Zeno, dry stout da 4.5% vol. Da segnalare anche Le Arche, ultima nata del 2021, session Ipa con dry hopping da 3.7% vol., caratterizzata da evidenti note agrumate.
Una volta ristorati, lasciamo il birrificio (per le visite è sempre meglio prenotare) e, prima di raggiungere il prossimo produttore di giornata, dedichiamo al centro storico scaligero, il tempo che merita. Verona fu costruita in un’ansa del fiume Adige e nei secoli il suo nucleo principale è rimasto raccolto e facilmente raggiungibile. Il che significa che una giornata è sufficiente per apprezzare almeno i fondamentali della città. Dalla chiesa di San Zeno, capolavoro dello stile romanico situata nell’omonima piazza, che contiene le spoglie del Patrono esposte con una maschera in argento a coprirne il volto, a Castelvecchio, il maniero costruito alla metà del trecento sulla riva dell’Adige.
E poi c’è la bellissima Piazza delle Erbe, un vero salotto a cielo aperto. Vanto assoluto di Verona sono anche le vestigia romane, per le quali è seconda solo alla stessa Roma in numero e qualità di conservazione. L’anfiteatro, straordinaria quinta scenografica di Piazza Bra, il teatro romano, il ponte Pietra, l’arco dei Gavi, le porte dei Leoni e Borsari, per citare solo alcuni dei beni più importanti che, come tesori inaspettati, si offrono ai visitatori curiosi appena oltre la cinta muraria, pronti a raccontare la loro storia. Ma a me affascinano soprattutto i vicoli, le piccole stradine medievali che si snodano per chissà dove, i balconi, gli affacci improbabili delle case, i colori che si mischiano in un abbraccio improvviso di luci, le voci. Insomma concedetevi di perdervi, a Verona. È probabile che vi ritroviate diversi, più avanti.
Di sicuro a questo punto saremo tutti assetati, ergo è il momento di una “pausa birretta” in birrificio. L’ultima tappa del nostro viaggio si trova appena fuori dal centro, a Borgo Roma, quartiere artigianale, dove in via Silvestrini ha sede Mastro Matto. Il birrificio nasce nel 2013, ma bisogna aspettare il febbraio 2014 per la prima cotta. Oggi la società è composta da Francesco Chesta, che cura la produzione, Nicolò Sonato e Stefano Quartulli. Sono tre dei quattro ragazzi, all’epoca tutti sotto i trent’anni, che quasi un decennio fa hanno dato vita al progetto, o almeno al suo embrione, comodamente seduti al bancone di un pub. D’altra parte, quando ho chiesto a Francesco da cosa derivasse il nome da loro scelto, mi ha risposto che per cominciare a fare birra subito dopo una crisi economica mondiale bisogna essere matti. All’inizio l’idea era quella di fare birra come servizio al locale dove il gruppetto di amici si ritrovava, poi l’illuminazione: facciamo birra per tutti. Ecco, anche se magari non proprio per tutti, bisogna dire che di birra i “matti” da allora ne hanno fatta parecchia. Complice anche la felice intuizione di partire con un impianto forse sovradimensionato in una prima fase, ma capace di reggere crescita e sviluppo del birrificio per quasi dieci anni. Tanto è vero che il loro primo 5 hl di sala cotta e 200 di cantina è ancora in piena attività. Con l’obiettivo, scaramantico, di sostituirlo nel 2022.
Intanto il 2021 ha portato un’importante novità: a giugno, l’apertura della nuova tap room con annesso beer garden. Ambiente simpatico e rilassato per gustare le birre della casa. E a proposito del fronte birra, Mastro Matto punta molto sulla bassa fermentazione: non a caso la Helles è la referenza che fa la parte del leone, con il 50% di produzione e vendita. Precisa, pulita, di ottima beva. Si aggiungono la più complessa e strutturata Dunkelbock, la classica e godibilissima Pils, e la Ignorant Pale Ale, Ipa dai toni leggeri, sui 5 gradi. Completa la linea una blanche con bucce di Bergamotto, avena e Pepe Timut, lanciata in pieno lockdown e apprezzata fin da subito dai consumatori locali e non. Ci tengo a segnalare anche un grande ritorno, che farà piacere agli amanti dello stile, tra cui il sottoscritto: a breve sarà di nuovo disponibile in taproom la Schwarz.
Il nostro birrovagare per oggi termina qui, ma sono sicuro che qualcosa resti ancora da vedere, birre da assaggiare, racconti da ascoltare. In effetti ho già in mente altre storie, altre strade da percorrere. Quindi torneremo presto in Veneto, perché qui in una manciata di chilometri si incontrano mondi diversi e ci vogliono tempo e pazienza per non limitarsi a guardarli, ma riuscire a vederli. Vi saluto con le parole di Walter Benjamin sulle valli veronesi che, a malincuore ammetto, sono più belle delle mie. “Che strano effetto questo ribollio di colli, queste mura ora ripide, ora smussate, le differenze di altitudine, a volte appena percepibili. Tutto di una sottile sensibilità del tutto celata all’occhio profano”.