L’anno appena passato [2020] ha sferzato duri colpi in una pletora di settori produttivi, e la birra artigianale non è stata certo risparmiata. In nessuna parte del pianeta. Abbiamo esaminato le difficoltà della scena d’oltreoceano, ma soprattutto abbiamo vissuto, molto più da vicino, tutte le problematiche che hanno afflitto i birrifici e i pub nel nostro paese.
C’è chi ha dovuto reinventarsi e cambiare i propri business plan; chi ha fermato e posticipato progetti; chi è andato incontro ad una forte flessione dei volumi di produzione, vedendoli scendere fino a un quinto del 2019. I
n questo scenario, che possiamo definire senza mezzi termini drammatico, possiamo supporre una compressione della creatività brassicola, ovvero è ragionevole immaginare che, alle prese con simili difficoltà, il cielo dei pensieri di un birraio fosse quantomeno tinto di nero. E, per capire se questa situazione di impasse creativa è davvero reale, possiamo utilizzare come cartina tornasole uno dei segmenti stilistici da sempre più variegati, foriero dei trend più curiosi e stravaganti: sì, stiamo parlando delle IPA.
Per molti mesi del 2020, il mercato delle birre luppolate non ha evidenziato particolari sviluppi. Le NEIPA hanno continuato a mietere indiscutibilmente successo, affermando una posizione dominante rispetto alle altre sottocategorie. Per buona pace di chi da tempo le bolla come noiose, sembrano piacere ancora a molte persone. Anche nello UK, dove il consolidamento delle NEIPA è arrivato a significare un vero e proprio potenziale biglietto di ingresso nel novero dei big-names del craft (del tipo: se non le fai, non ti consideriamo; se le fai bene, se ne può parlare), lo scenario è rimasto immutato. Una particolare menzione la merita un nome che ha saputo distinguersi sopra questo mare magnum: Pentrich.
Il piccolissimo birrificio di Ripley, appena qualche decina di km sopra Nottingham, si è reso protagonista per una serie di NEIPA di fattura eccezionale. A partire da aprile ha sfornato in continuazione dei veri gioielli, spesso incentrati sull’utilizzo di un solo luppolo, facilmente assimilabili ai nomi americani più quotati. Ed è molto significativo come, dopo circa sette mesi, in accordo con la regola non scritta cui si faceva riferimento sopra, Pentrich abbia iniziato a discostarsi dal proprio core-business – andando ad esplorare territori stilistici diversi con una Smoked Porter, una Scotch Ale, una Imperial Stout. Naturalmente anche queste sono state vendute su tutti i maggiori web-shop d’oltremanica. Molti le avranno comprate solo per la garanzia che il nome si è guadagnato nel precedente arco temporale, desiderosi di testarlo su altre tipologie di birre.
Ci si chiede allora: se non fosse stato per il background di notorietà costruito grazie alle NEIPA, quale appeal avrebbero avuto? Sia chiaro: non si vuole trasmettere l’idea che, diversamente, nessuno avrebbe comprato una Smoked Porter di Pentrich, né che questa non fosse spendibile, come si dice in gergo politico; si è però abbastanza convinti che, nel caso specifico, il birrificio avesse ormai maturato un buon credito presso i bevitori. Un bene, o un male? Se la vedessimo con gli occhi del crociato tradizionalista, subito ci si indignerebbe, intonando la solita canzone che vede le perfide NEIPA fagocitare il mercato. Se invece fossimo più razionali, potremmo invece guardare al semplice fatto che le NEIPA stiano incarnando una sorta di viatico che spinge un birrificio a cimentarsi con prodotti dalla diversa collocazione su scaffali e pagine web.
Alla fine dell’estate, qualcosa dev’essere scattato. Non si sa come e perché, ma sono stati riportati continui avvistamenti di creature singolari e mastodontiche che scorrazzavano nel regno del luppolo. Ricordate le TIPA (Triple IPA)? Sono state sviscerate e analizzate in questa rubrica, ben due anni fa. Esistono da parecchio, e la cosiddetta New England Revolution le ha modificate e rivoltate come un calzino, restituendole a mio avviso anche migliori di come venivano interpretate alla fine degli anni duemila. Pare che in Italia soltanto ora ci si stia avvicinando, molto alla lontana, alla proposizione di codeste declinazioni. Alcuni sono pronti addirittura ad annunciare il 2021 come “l’anno della TIPA”.
Personalmente ci andrei piano. Anzitutto, perché fino ad oggi si sono visti solo dei tentativi episodici e scarsamente distribuiti. In secondo luogo, perché al massimo potrebbe essere un fenomeno limitato alla nostra nazione. Come detto sopra, fuori dai confini italici si sta assistendo ad altro. Son sempre più frequenti le QIPA, ovvero Quadruple IPA. Mentre ci interroghiamo sulla corretta pronuncia dell’acronimo (sarà “quipa” o “chipa”?), il significato del nome pare lapalissiano. L’obiettivo è quello di spingere la categoria oltre i limiti conosciuti, arrivando a sforare i dodici gradi alcolici. Per contrastare la dolcezza del mash, si fa uso di quantità esagerate di luppolo – possiamo prendere, come esempio, le parole utilizzate per la descrizione commerciale della Birthday Beer di Polly’s Brew, fra i migliori britannici che lavorano in ambito NEIPA: “we’ve mega-charged this beer with a 15kg whirpool addition of Chinook, Mosaic and Simcoe […] and rounded off with a 80kg dry-hop addition of Citra, Mosaic, Simcoe, Sabro, to create a potent, bonafide hop bomb […] to play off the warming booze”.
A causa della Brexit, che ha praticamente interrotto qualsiasi spedizione oltre il territorio UK da parte dei web-shop, non c’è stato modo di mettere le mani su questo intrigante esperimento. C’è stata invece l’occasione di assaggiarne altre simili (come la His Airness di Magnify Brewing, in New Jersey), e bisogna dire che quanto riportato dal reparto marketing di Polly aderisce perfettamente a quanto viene versato dalla propria lattina. Il lavoro congiunto dei lieviti di estrazione London/Vermont, e del gigantesco quantitativo di luppolo impiegato, riesce a contrastare molto bene la potenziale deriva “dolciona” che da una IPA di 12 gradi sarebbe giocoforza aspettarsi.
La bevuta ha un ingresso morbido, di spessore importante e non manca affatto quella nota di calore alcolico dall’inizio del sorso al finale, ci mancherebbe altro, ma nel suo complesso il risultato funziona e si regge in piedi. Le variopinte sfumature di luppolo, dalla frutta al dank, impediscono la percezione di una dolcezza fuori le righe; e, d’altra parte, un corpo così forte evita quelle montagne russe fra dolce e amaro che erano tipiche delle Triple IPA di dieci anni fa. Insomma: le esagerazioni della materia prima si risolvono in un certo equilibrio nel bicchiere, per buona pace di coloro che usano dire che oltre una certa soglia è inutile aggiungere luppolo.
Oltre le TIPA/QIPA, sul mercato c’è un timido avanzare di altre apparizioni che, per chi è sulla scena non da poco, sanno di un già visto e vissuto. Per dirne una si può azzardare che si stia cercando di riportare in vita le Black-IPA, sottogenere di cui forse nessuno ha mai sentito la mancanza. Nate come una prosecuzione ed evoluzione delle più antiche Cascadian Dark Ale, ebbero uno sviluppo piuttosto effimero a cavallo dell’inizio del precedente decennio. In verità, alcune di queste birre – imperniate sul contrasto malti scuri/luppolo, binomio comunque già presente in molte IRS americane vecchio stampo come la Yeti – non dispiacevano affatto, e proprio in Europa si videro due esempi godibilissimi come la Dark Hops di Beer Here e la nostrana B-Space Invader di Toccalmatto.
A distanza di un’eternità troviamo la Jetglo Moon di Pentrich (ancora!) e la pirotecnica Imperial Coconut di Vocation. L’ultima è una vera e propria aberrazione: definita Black-TIPA per il raggiungimento degli 11% vol., denota l’aggiunta di cocco per esaltare il profilo del luppolo Sabro. Per quanto possa far storcere il naso ai fautori delle ortodossie, risulta tutto sommato bevibile, anche se con il limite della mezza pinta. Una caratteristica che presta il fianco alla critica più spontanea del mondo: se c’è una qualità che mai dovrebbe mancare in una birra appartenente alla classe IPA, ebbene è la facilità di terminarla e farsi solleticare dall’intenzione di ordinarne ancora. Peculiarità che, per fortuna, non manca in molte TIPA, mentre le QIPA restano, almeno per il momento, sospese in quella dimensione scandita dal tempo verbale vedremo.
Se siete assetati di novità sappiate che il lessico della galassia dominata dal suffisso IPA può annoverare un ulteriore lemma: signore e signori, ecco a voi le Cold IPA! Basterà lasciarla in congelatore per qualche ora? Non esattamente. L’idea è di creare una versione crisper rispetto alle IPA – ricordiamo crisp come il descrittore che identifica la capacità di una birra di essere diretta, secca, non invasiva nel mouthfeel, poco “grassa” e priva di una persistenza troppo lunga. Il risultato viene centrato con la semplice combinazione malto pilsner + lievito da lager.
Subito ci si è chiesto: dove starebbe la differenza con le IPL – India Pale Lager? Sentiamo cosa ne pensano Andy Miller e Kevin Davey, rispettivamente birrai di Great Notion e Wayfinder, i due birrifici di Portland che hanno dato vita a cotale ibrido in collaborazione: È una via di mezzo fra una IPL e un Malt Liquor (lager/ale in cui viene apportata un’aggiunta di materia fermentescibile come zucchero o granturco per alzare il grado alcolico) […] Non mi piace utilizzare il termine IPL per ciò che stiamo andando a creare; la maggior parte di queste ha il sapore di una IPA del passato, quando lieviti e temperature avevano una cattiva gestione […] Con una base malt-liquor rendiamo il corpo leggero, quindi lavoriamo a basse temperature e con lieviti ben precisi, infine si va di dry-hopping. L’ultima parte è essenziale”. Curioso? C’è giusto da chiedersi se il riferimento ai Malt Liquor sia positivo, o se possa invece innescare un pericoloso sdoganamento di tutti i succedanei economici del malto che spesso vi ruotano attorno: riso, mais, destrosio. O se andrà ad accendere solo un misero fuoco di paglia, come le Brut IPA di un paio d’anni addietro.
Concludendo, si può fare una riflessione su questo continuo e ciclico reinventare la ruota. Sembra che molte delle intersezioni ibride fra le varie aree del terreno IPA siano solo un tentativo di riempire i piccoli spazi vuoti rimasti sulla tela di un dipinto già tracciato, un palliativo per lenire la mancanza di idee. Oppure no. Quand’anche fosse vero che tutto sia stato detto, ogni virtuosismo suonato e orchestrato, magari, com’è valso per le TIPA, il ricalco diventa l’occasione per migliorare e abbellire una maniera produttiva preesistente. Sconfiggendo la noia, ma soprattutto la sete.