Questione di stile: le Cold Ipa
Nuovo fiocco verde al portone della “Casa del luppolo”. La già folta progenie delle India Pale Ale si arricchisce con una nuova nascita: all’ultima arrivata in questa inesauribile discendenza di tipologie è stato impartito il battesimo di Cold IPA. Il suo primissimo vagito, in realtà, risale all’ottobre 2018. Ma, si sa, in materia di stili birrari non è detto che un esperimento sia destinato automaticamente a fare scuola, e per capire se possa aver lasciato una traccia, depositato un seme, occorre qualche tempo. Ebbene, nel caso di specie si può dire che l’idea abbia germogliato. Non si parla ancora di un genere ufficialmente catalogato nei faldoni di uno tra i maggiori archivi deputati alla raccolta delle denominazioni brassicole (come le Styles Guidelines del BJCP o della Brewers Association); eppure si tratta di una designazione che – nella pratica quotidiana animata dai produttori, dai somministratori, dai consumatori e dagli osservatori – possiamo dire sia più o meno distintamente percepita entro termini di alquanto chiara specificità.
E dunque, andiamo al nocciolo della faccenda: cos’è una Cold IPA? Per spiegarlo, sintetizziamo quanto riferito da Kevin Davey, responsabile della squadra operante in sala cotte alla Wayfinder Beer di Portland (Oregon): ovvero la culla dove questa sottotipologia ha conosciuto la propria gestazione e la propria venuta alla luce, con l’uscita, appunto nel 2018, della propria etichetta apripista, la Relapse IPA. Ecco, al fine di inquadrare in modo diretto il senso del suo disegno, Davey spiega che l’intenzione è stata quella di scolpire un profilo sensoriale agli antipodi rispetto alla NEIPA: un profilo tale da risultare più western di una West Coast. Inoltre, e contemporaneamente dribblare alcuni inconvenienti in cui si può incappare quando ci si cimenti con un genere brassicolo che, almeno in parte, è motivato esso stesso dalla medesima missione di porsi quale contraltare delle New England: parliamo delle IPL, le India Pale Lager. Nello specifico, è stato un duplice binario a guidare i primi passi del progetto Cold IPA. Da un lato esaltare il ruolo del luppolo, sia in aroma, a scapito delle esterificazioni fermentative, sia in amaro, senza intralci da parte di rotondità palatali dovute a glicerina, proteine o quant’altro. In seconda battuta (ed è qui che si misura la differenziazione rispetto alle IPL), scongiurare certe sbavature oggettivamente possibili quando si ricorra a ceppi di lievito da bassa, con particolare riferimento allo sviluppo di note solforate.
Vediamo quindi qual è stata la quadratura del cerchio, secondo Davey e la Wayfinder. In primo luogo, una miscela secca pensata in modo da contenere al massimo la portata delle note cerealicole, a favore, come detto, delle freschezze del luppolo: un mosto, perciò, privo di malti caramellati e invece imperniato sul PIls, più, in aggiunta (dal 20 al 40% dell’impasto), su riso (con la sua spinta alla secchezza) e anche mais (entrambi ingredienti decisamente meno espressivi dell’orzo). Punto due (sempre in una prospettiva tesa a garantire il primato del luppolo, in chiave tanto olfattiva quanto gustativa), il ricorso al lievito Lager (più neutro e senza dubbio non incline a formare glicerina); però facendolo lavorare al limite alto del proprio intervallo termico (naturali alternative sono ceppi selezionati da Kölsch o da California Common): tutto questo con l’obiettivo di minimizzare il formarsi di sottoprodotti poco auspicabili (come l’acido solfidrico o il DMS); e di spingere l’attenuazione fino all’82-88% di tenore apparente (più asciutta è la bevuta, più spiccano le sue venature amaricanti). Terza mossa, un dry-hopping effettuato a temperature non troppo basse – cioè attorno ai 25 °C – durante le fasi di krausening (presa di carbonazione mediante aggiunta di mosto fresco in tino) o di spunding (presa di carbonazione a tino sigillato, senza sfiato, sfruttando l’attività metabolica del lievito inoculato in fermentazione primaria): un’opzione che favorisce le biotrasformazioni a carico del luppolo e limita la penetrazione di ossigeno nel corso della stessa luppolatura a freddo. Infine, ancora una volta in un’ottica di massima accentuazione delle funzioni del luppolo, il ricorso a una filtrazione profonda (con conseguente limpidezza cristallina della massa liquida), per togliere di mezzo sospensioni invadenti e il raggiungimento di un livello di carbonazione alquanto sostenuto.
A valle, il risultato dovrebbe essere una birra chiara (dal paglierino scarico al dorato chiaro) e pulita; i cui aromi maltati ed esterificati, particolarmente tenui, agiscono in funzione gregaria rispetto alle preminenti croccantezze delle note luppolate di vario genere (bacche di bosco, frutta continentale e tropicale, temi sauvignoneggianti e catty, agrumi, resine silvestri); una bevuta dalla corporatura al massimo medio-leggera; di caratura alcolica tra il 6.5 e l’8%; dotata di uno slancio amaricante di livello da medio a elevato, ma privo di ruvidezze.