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Praga tra passato e futuro: come sta cambiando la birra ceca

Poche città al mondo possiedono quel misterioso fascino identitario che ha Praga, intrisa di contaminazioni architettoniche, culturali e artistiche. Non è certo la più vecchia città d’Europa, ma è capace di restare ancorata alla sua tradizione pur restando molto vigile sul presente.

Uno degli ambiti in cui questo è evidente è quello che riguarda il contesto birrario, nella capitale della nazione con il consumo pro capite maggiore al mondo. Di tutti i birrifici cechi, poco meno di 600, circa 60 sono presenti sul territorio di Praga, il che è tanto ma ci parla anche di una situazione nazionale disseminata di numerosissimi produttori in ogni villaggio.

Le abitudini dei praghesi, benché siano rimaste solide anche negli ultimi 30 anni di passaggio dopo i cambiamenti politici degli anni ‘90, dimostrano piccoli ma inesorabili cambiamenti, innescati dal volto più giovane della città oltre che dalla crisi provocata dalla situazione economica e dai recenti eventi pandemici.

Uno dei luoghi più iconici del panorama birrario della città è sicuramente U Fleků, storico pivovar (è così che si indica un birrificio, quasi sempre coincidente con il termine brewpub perché spesso c’è un locale di mescita). Vanta una produzione attiva da oltre cinque secoli, fondato nel 1499, noto soprattutto per la sua birra scura in stile tmavè (dal significato di “scura”) o tmavý ležák (letteralmente, “lager scura”). Non è chiaro sapere cosa venisse prodotto inizialmente, ma a quanto pare la celebre Flekovský tmavý ležák 13° è prodotta e venduta nei favolosi locali di via Křemenkova 11 fin dal 1843 senza soluzione di continuità. L’incredibile numero di posti a sedere, circa 1200, distribuiti tra otto ambienti, incluso un cortile all’aperto tra gli ippocastani, ha seriamente messo in difficoltà la produzione degli ultimi anni di restrizioni e cali dei consumi fuori casa. 

Oltre a intensificare la scarsa produzione di bottiglie, quindi, è spuntata fuori una seconda birra, fatto che non si vedeva lì da secoli. E così oltre alla classica tmavé, da un paio d’anni si può trovare la Flekovský světlý ležák 13°, per nulla da meno rispetto alla sorella scura, con grande carattere mieloso e un ottimo bilanciamento con il fine erbaceo da luppolo. Dopo questa scossa, da U Fleků sembra ci abbiano quasi preso gusto, tanto che hanno lanciato anche qualche birra speciale per i periodi più importanti dell’anno, come la versione di Pasqua chiamata Flekovské Velikonoční, addirittura con luppolo in dry hopping, tecnica ormai non rara da queste parti, basti bere le ottime birre di Lod’ e Prokopàk, tradizionali ma con un brio unico.

Un’altra curiosa tendenza riguarda le nuove aperture, che non sempre avvengono nel recinto produttivo della new wave e del craft. Spesso nuovi progetti attingono da edifici con una certa storia, un percorso, una identità birraria anche spendibile a livello comunicativo e si assiste a riavviamenti di birrifici, già presenti o installati da zero, in vecchi monasteri, conventi, luoghi di culto in cui in passato la birra si produceva già e che per via dei governi di stampo comunista furono dismessi o chiusi del tutto in quel periodo che va dal dal 1946 al 1989. Sarebbero tanti quelli da citare, da Únětický a Strahov e altri ancora, fino a Břevnovský, un birrificio fondato in un monastero che compare nelle cronache della produzione di birra dal 993, arrivato fino al 1889 tra diversi stop, fino alla ripartenza del 2011. Il nuovo corso del monastero non mette certo da parte la tradizione, con una sontuosa Benedict Světlý ležák 12°, prodotta con tripla decozione, tecnica di ammostamento complessa che in Repubblica Ceca viene eseguita molto spesso ma per una o due volte, raramente tre. La birra ne giova con un’intensità maltata elevatissima, profondamente mielata, capace di esprimersi anche con un leggero biscottato e un amaro in equilibrio con il tutto. 

È possibile berla sia nel monastero alla periferia di Praga, sia nel Benedict Klub in piena zona Karlín, in un locale acquisito di recente proprio dal birrificio Břevnovský ma sempre sede di una ex birreria (Pivovarský Klub). Ma non solo tradizione, perché sia in monastero che nel moderno locale ci sono tantissime contaminazioni: tra birre prodotte e birre ospiti, si va dalle immancabili IPA a fruit sour, grape ale, imperial stout e altro. Negli ultimi anni il mercato dei giovani bevitori ha cercato e quasi indotto anche realtà partite con obiettivi classicheggianti ad affacciarsi nel mondo craft, a volte compiendo un equilibrismo complicato sulla carta, ma efficace dal punto di vista pratico.

Anche il caso di Dva Kohouti è emblematico. Siamo sempre in zona Karlín, quartiere che negli ultimi anni sta beneficiando di una certa vitalità e dinamicità per via di un corposo recupero di vecchi edifici a prezzi più accessibili e dove nuovi professionisti, imprenditori e artisti hanno deciso di posizionarsi con i loro studi, uffici e attività. Nel 2018 nasce questo progetto dei “due galletti” (questo è il significato di Dva Kohouti) Adam Matuška, birraio ceco molto noto in patria, e Lukáš Svoboda, esperto bartender di Lokál.

Al locale si accede attraverso un ingresso squadrato che porta a un ampio cortile interno. È arredato in modo moderno con luci e colori ma in maniera molto semplice, con tavoli e panche dentro e fuori e fermentatori su tutto il perimetro interno accanto a un piccolo impianto. Dal pomeriggio alla notte il locale prende vita e tra musica e giovanissimi bevitori regnano le produzioni del piccolo birrificio, con una la Místní pivo 12°, una světlý ležák definita il fiore all’occhiello del birrificio dove il profilo maltato è quello più in evidenza rispetto, per esempio, alla Místní Suché 10°, che si distingue per la finezza delle fragranze speziate, erbacee e floreali, il gusto cremoso delicato su corpo medio e l’amaro equilibrato che la rendono una birra di grande bevibilità, oppure alla Bufet 11°, dall’amaro pronunciato ottenuto utilizzando due varietà di luppolo ceco della famiglia del Saaz. 

Molte sono le produzioni sour e con frutta, servite addirittura nel classico boccale panciuto ceco, il che da un lato stride ma dall’altro avvicina i bevitori alla normalità e a una propria comfort zone.

Non è l’emblema della birra ceca in generale oggi, ma nuove realtà stanno lentamente ma inesorabilmente spengendo verso un nuovo modo di intendere la birra, lasciando la scelta a chi beve e offrendo una gamma certamente più ampia di birre rispetto a quella di qualche anno fa.

Anche fuori Praga si ritrova questa situazione, con birrifici di nuova generazione che non dimenticano che le birre più bevute e vendute sono le světlý ležák (quelle che nel nostro immaginario corrispondono alle bohemian pils, per intendersi), ma che non si fermano a questo dato di fatto. Per esempio, Zlatá kráva a Nepomuk produce moltissime birre di stampo moderno, senza fare a meno della chiara světlý ležák (che costituisce oltre il 70% delle vendite) , ma in un contesto rurale in cui quasi non ci aspetta questa apertura mentale, che però sembra ugualmente efficace. Altro esempio può essere Purkmistr, nella prima periferia delle campagne di Plzeň, dove nella taverna (attigua all’hotel e spa sempre di proprietà del birrificio) si bevono anche birre di ispirazione tedesca come rauch, dunkelweizen, così come stout e west coast IPA, oltre alle classiche světlé, tmavé e polotmavé.

Il mondo ceco sta cambiando e lo sa bene anche l’industria: recentemente Pilsner Urquell ha lanciato Proud, un birrificio side-project di tipo “crafty” per inseguire anche altri lidi, sempre più pesanti in termini di volumi, nonostante il segmento delle lager ceche di gradazione medio-bassa vale comunque oltre il 90% dei consumi.

Questa terra si dimostra, anche in questo campo, a cavallo tra due mondi e due modi, di vivere la vita e la birra, con una pressione storica e tradizionale che cerca di amalgamarsi con le sfide della modernità. Che si ami l’una o l’altra filosofia, se si cerca con criterio si riesce a bere molto bene e in maniera mai prevedibile, viaggiando alla scoperta di vecchi e nuovi sapori.