Non mi è mai stato facile parlare di Frank Boon per tanti motivi. In primis perché io sono considerato un talebano del lambic, ma in realtà ancor di più perché io appartenga alla famiglia Van Roy/Cantillon. Da me quindi ci si aspettava sempre una contrapposizione a chi, come Frank, affianchi a derivati del lambic più vicini al tradizionale, gueuze e kriek addolcite, stile granatine. Su questo ci potete giurare, ma non posso essere tacciato di eresia nel dire che, quando ne abbia l’occasione, io beva con piacere le sue gueuze, diciamo all’antica, dalla propedeutica Oude Geuze alla forte e più complessa Mariage Parfait e ancor di più le recenti Vat da botti singole, ritrovando comunque in tutte, ovviamente con diverse intensità, l’impronta della birreria nei caratteristici aromi di cedro, uva bianca e lieve formaggio brie ma soprattutto nell’inconfondibile finale erbaceo e amarognolo.
Oggi questo imbarazzo dovrebbe essere in me ancor maggiore dopo aver visitato la nuova birreria, con i moderni impianti e quindi con l’applicazione di nuove, innovative e forse discutibili pratiche e tecniche, che sembra una città d’acciaio paragonata alla vecchia, piccola birreria dall’aria romantica conferita dal legno. Invece l’amicizia e la stima che ho per Frank sono più durature di tutte queste doverose considerazioni. Sono lontani i tempi di un nostro scontro nella sua vecchia birreria quando mi disse con aria seccata “questa è una birreria e non un’aceteria” ovviamente riferendosi alla scuderia cui appartenevo e a cui orgogliosamente appartengo e apparterrò sempre. Fu lui a rompere successivamente il ghiaccio facendo crescere la mia stima nei suoi confronti specie quando mi resi conto della sua indubbia competenza. Nonostante la sua estrazione, originario di Lovanio, non fosse oltretutto legata al mestiere di birraio, Frank viene meritatamente considerato, da molti colleghi, un punto di riferimento per le sue profonde conoscenze tecniche sulla produzione e assemblaggio del lambic. Non avendo io le basi necessarie per affrontare discorsi sulla produzione ma essendo, come ben si sa, perdutamente innamorato della storia della bevanda che segnò la mia vita, le mie lunghe conversazioni con lui sia in Belgio e recentemente anche negli States, vertono principalmente sulle birrerie di lambic dismesse, suoi loro birrai, sui locali chiusi da decenni e sui loro leggendari gestori. In questo campo Frank deve essere considerato, a tutti gli effetti, un autorevole storico. Conservo ancora, gelosamente, gli appunti che ricavai dai nostri incontri arricchiti da quelli tratti da un nostro carteggio via e-mail.
Cercando aneddoti legati a Frank, il primo che mi viene in mente riguarda la venerazione che Armand Debelder nutriva verso di lui. Per scherzare, dicevo sempre che lui tenesse la foto di Frank sul comodino. Durante un’esibizione pubblica di tanti anni fa, Armand non riconobbe la sua gueuze, cosa che invece fece Frank, aggiungendo punti su punti alla stima dell’amico e collega. Una cosa che mi fa impazzire, specie in Belgio, è quella di toccare, soprattutto con i birrai, argomenti che per altri sono considerati delicati, imprudenti o totalmente tabù, mentre a me, per lunga e sincera amicizia, viene consentito di farlo. Mi spiego meglio. Ci mettiamo in un angolo e io rivelo, sempre con ironia e col sorriso sulle labbra, di sapere qualcosa che sarebbe meglio tenere segreto oppure non stare a riesumare. Non sono cose gravi ma spesso peccatucci del passato legati principalmente a prodotti che i birrai furono costretti, spesso controvoglia, a fare per il mercato. Nel caso specifico di Boon, io non parlo delle versioni addolcite delle quali lui sa cosa penso, ma tiro fuori dal cassetto della mia memoria due sue birre. La prima che lui rifiuta e che invece a me e soprattutto a mia sorella, nei viaggi in Belgio, piaceva era la “Lembeek’s 2%” una “bière de table” da 25cl che aveva il suo perché, ma il bello arriva quando tiro in ballo una tremenda dolce simil-gueuze etichettata “Belgian Ale” in bottiglia da 75cl (non ricordo se avesse il tappo di sughero ma credo di sì), prodotta per la catena di supermercati inglesi Sainsbury’s. Siamo nel campo dell’ironia e tutto avviene, ovviamente, inframezzato da sorrisi, strizzate d’occhio e pacche sulle spalle.
In questo periodo in cui tutti parlano di tutto senza averne competenza, a costo di sembrare politicamente scorretto, io non rinnego la mia amicizia con Frank e i suoi figli Jos e Karel, tranquillizzando i miei fans sul fatto che io appartenga, anima e corpo, alla famiglia di rue Gheude 56 ad Anderlecht. Permettetemi, infine, un paragone ardito che credo possa essere interessante per i lettori, oltre che emblematico e rivelatore, confrontando le conversazioni a tema lambic, gueuze ecc. che ho, più frequentemente, col mio secondo padre Jean-Pierre Van Roy con quelle, meno frequenti, che intavolo con Frank. Con Frank parlo quasi sempre di produttori e assemblatori del passato. Lui sa tutto e di tutti e con la sua proverbiale pacatezza, sciorina con assoluta precisione e dovizia di particolari, date, acquisizioni, luoghi e così via. Con lui confronto i miei ricordi che emergono dai miei primi avventurosi e pionieristici viaggi nei piccoli e sperduti villaggi nella valle della Senne che sembravano lontanissimi e in realtà distanti una manciata di chilometri. Parliamo con nostalgia dell’atmosfera genuina che si respirava nei vecchi locali, chiusi da anni e dei loro pittoreschi gestori e finiamo sempre col citare Michael Jackson e la sua mitica puntata per Discovery Channel nella quale si vede un giovanissimo, timido ed emozionato Frank conversare amabilmente col Maestro. Per chi, colpevolmente, non l’avesse ancora vista, questo il link del video su youtube “The Beer Hunter Episode 5 — Burgundies of Belgium”.
La musica è molto diversa con Jean-Pierre. Timidezza e pacatezza sono parole estranee al mio secondo padre. Dopo l’immancabile carrellata nostalgica sulla “Bruxelles che Bruxellava” si parte sempre, lancia in resta, con una sana e verace polemica contro chi ha tradito l’etica del lambic, contro la deprecabile tendenza moderna praticata dai famigerati beer geeks, mostri che involontariamente ho contribuito a creare proprio anch’io, nella maniacale ed assillante ricerca di rarità impolverate o di birre con i più strani ingredienti, in piedi e sull’attenti, con la celebrazione della Gueuze. Ben vengano birre nuove da Jean ma non dimentichiamo mai che la vera birra di bruxelles è sarà sempre sua maestà la Gueuze, con la G maiuscola, scritta in caratteri d’oro! Superfluo aggiungere come io sia totalmente, sottolineo totalmente, d’accordo con lui! Con Frank parlo del Pajottenland, con Jean-Pierre parlo di Bruxelles e forse sta qui la spiegazione di tutto.
La Gueuze di Boon
Le prime gueuze Boon che assaggiai a inizio anni ‘90 avevano etichette spartane nere con scritta bianca, rigorosamente in solide bottiglie da 75cl ed erano più acide e citriche di quelle di oggi. Con questo non voglio però trarre in inganno in quanto la filosofia di Frank, morbidezza, equilibrio e non aggressività, è sempre stata ben viva e impressa nella sua mente. Già a quell’epoca trovavo il morbido (moelleux come ora scrive lui) nelle sue gueuze mentre nelle altre che pian piano scoprivo, ad esempio Wets, Moriau, Eylenbosch, De Neve ecc. avvertivo note più dure, soprattutto citriche con, a volte, punte acetiche. Anche se la secchezza finale delle Boon era più marcata di altre mie scoperte come, sempre ad esempio, Van Malder, Brabrux, Toussaint ecc.
La Oude Geuze di oggi è senza dubbio più morbida, con i suoi off flavors di media intensità, perfetta come inizio per chi si avvicini per la prima volta allo stile. La Mariage Parfait ha dalla sua un’indubbia originalità e riconoscibilità, conferite anche dal forte grado alcolico, con off flavors di maggior intensità. Notevoli le gueuze della serie Vat nelle quali Frank si diverte a fare variazioni su monoblend da botti numerate e pure la Black Label. Suggerisco di provarle confrontando uno degli aspetti più interessanti che ogni gueuze dovrebbe rivelare, cioè descrizione degli off flavors partendo da quelli che io chiamo “gastronomici” per passare agli “extragastromici”.