I difetti della birra: l’ossidazione
Molto spesso in degustazione si sente parlare di birra ossidata. Ma cosa si intende? Quali sono i descrittori che fanno pronunciare questo termine al degustatore? L’ossidazione è una reazione chimica che vede coinvolti l’ossigeno assieme ad altre sostanze presenti nella birra. Tra i principali sentori che possono indurre a pensare ad un processo di ossidazione troviamo: frutta sovra-matura o “maderizzato”, come ad esempio la nota di agrume dolciastro presente correttamente in alcuni vini liquorosi, come il Madera; l’odore di cartone in particolare bagnato; di cotto; cuoio, stalla, muffa, polveroso e stantio. L’ossidazione può essere anche “silente” all’olfatto, manifestandosi con un effetto inibitorio delle componenti aromatiche, percepibile in degustazione come perdita di freschezza.
Nel descrivere gli effetti nella birra partiamo da una delle poche caratterizzazioni sensoriali di matrice ossidativa che possono avere un rilievo positivo. Ovvero da quel sentore di Sherry, o genericamente liquoroso, che è spesso accompagnato da percezioni di frutta secca, in specie nocciola e mandorla. Questa sensazione può essere determinata da composti chimici risultanti da fenomeni di ossidazione (di melanoidi e dell’alcol stesso), sotto l’effetto di calore ma, anche, del semplice trascorrere del tempo. Se provocata dalla maturazione della birra, stoccaggi a temperature di conservazione superiori a quelle consigliate, possono accelerare il processo. Ovviamente queste sensazioni sono ammesse, e a volte anche desiderabili, a precise condizioni, ovvero a patto che la loro presenza si limiti a stili che hanno una certa vocazione ad inserire queste note nel loro arco olfattivo, quali ad esempio Barleywine, Old Ale e Scotch Ale. Nelle altre tipologie, qualsiasi orientamento maderizzato è avvertito e classificato come difetto. Alla vista una birra in partenza dorata/paglierino subisce, a seguito di ossidazione, un cambiamento di tonalità verso toni più scuri.
Altro difetto particolarmente sgradevole, è quello della carta/cartone, dovuto alla presenza di un’aldeide, il 2-trans-nonenale, prodotta in seguito all’ossidazione di alcoli superiori. Si previene evitando contatti con l’ossigeno durante fasi cruciali come il trasferimento del mosto nel fermentatore (specialmente i contatti con il mosto caldo) o come lo stesso imbottigliamento. Nota sensoriale mai accettabile, è molto spesso rintracciabile in birre commerciali di basso profilo.
Con il descrittore “muffa” invece si intende una sensazione che richiama propriamente sensazioni muffoso-fungine o anche, più genericamente, di stantio. Spesso sono associate a fenomeni di ossidazione di composti, della famiglia dei melanoidi, presenti nel malto. Tali processi ossidativi possono intervenire in ammostamento o in bollitura; o a seguito di contatto con l’aria, durante la fase d’imbottigliamento. Caratteristiche del genere possono essere imputabili peraltro anche a contaminazione da muffe in senso letterale (ad esempio a carico dei tappi in sughero). Alcuni batteri possono rilasciare composti come la geosmina, un composto che ha la particolarità di conferire, anche a concentrazioni molto basse, un forte sentore di terra, fungo e, appunto, muffa. Responsabile del gusto terroso delle barbabietole, partecipa alla formazione di quel particolare odore che si avverte nell’aria quando la pioggia comincia a cadere. Il nostro naso è molto sensibile a questo tipo di difetto e siamo capaci di cogliere molecole odorose a concentrazioni molto basse. Qualunque sia il responsabile, queste sensazioni non sono plausibili nel bicchiere, perlomeno in stili birrari convenzionali, ad alta o a bassa fermentazione che siano. L’unica e parziale, nei livelli di rilevamento, eccezione riguarda le Bière de Garde, oltre ovviamente ad alcune tipologie a fermentazione spontanea.