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I difetti della birra: acido solfidrico o idrogeno solforato

L’idrogeno solforato, chiamato anche acido solfidrico (H₂S), è uno dei difetti più comuni della birra appartenenti alla famiglia dei composti dello zolfo, una problematica temuta da produttori e bevitori per via di un odore non troppo piacevole che ricorda le uova marce, le emissioni geotermiche o l’acqua termale. Stiamo parlando di una sensazione che essendo presente in processi di degenerazione di alimenti o acque stagnanti, è da sempre un campanello d’allarme per l’uomo che ha sviluppato una soglia di percezione particolarmente bassa per questa sensazione (bastano poche parti per miliardo per avvertirla).

Viene prodotta durante la fermentazione dai lieviti appartenenti alla famiglia del Cerevisiae, ma in particolare da quelli del Saccharomyces Pastorianus, anche se dipende molto dal ceppo utilizzato. L’acido solfidrico si forma principalmente per riduzione dei solfati. Il lievito infatti inizia a utilizzare i solfati come elemento riducente nella sintesi degli amminoacidi quando l’ossigeno nel mosto è finito. Quando il lievito respira l’ossigeno produce acqua, se invece respira i solfati produce acido solfidrico. L’idrogeno solforato infatti è prodotto dal normale metabolismo del lievito: gli ioni solfato vengono assorbiti dalla cellula e ridotti per essere trasformati negli amminoacidi cisteina e metionina la cui degradazione libera H₂S. Per questo è importante che il mosto abbia tutti i nutrimenti necessari e una corretta ossigenazione per limitare la produzione di queste componenti. La maggior parte dell’acido solfidrico viene prodotto in una fase iniziale della fermentazione, quando la divisione cellulare, che richiede sintesi di amminoacidi, ha raggiunto il picco.

Fortunatamente è un composto piuttosto volatile e tende a disperdersi, e se tutto va per il verso giusto e si gestisce al meglio la fermentazione e la successiva maturazione, solitamente viene riassorbito o espulso e al momento del confezionamento non ve ne sarà traccia. Perché questo avvenga è necessario rispettare temperature e tempi di fermentazione. Nelle lager, come detto più esposte, il birraio dovrà effettuare una corretta pausa diacetile, rispettando i tempi e aumentando i gradi della temperatura, anche fino a 16-17, in modo tale che problematiche come il diacetile, che da il nome a questa fase, ma anche come i composti dello zolfo, possano essere assorbiti o espulsi. Una sensazione che nelle basse fermentazioni rimane nella birra anche dopo la conclusione della fermentazione. Ne consegue che tempi di lagerizzazione lunghi sono l’unica arma per ridurne i valori percepibili nel bicchiere (anche se esistono scorciatoie come l’utilizzo di alcuni coadiuvanti tecnologici a base di rame come la Zetolite).

Altre cause possono essere rintracciate nella composizione chimica dell’acqua che può contenere elementi indesiderati che possono stressare il lievito oppure avere livelli elevati di solfati che possono contribuire ad enfatizzare questo difetto. Gli ioni solfato sono costituiti da un atomo di zolfo legato a quattro atomi di ossigeno (SO 4 – ). Ci sono acque come quella di Pilsen dove i solfati sono pari a zero ma altre come quella Inglese di Burton-on-Trent oltre 400 ppm. Va ricordato infine anche che un eccessivo aroma di uova marce può essere anche indice di infezione, poiché alcuni batteri sono dei grandi produttori di anidride solforosa (es: Zymomonas).

Un difetto che non va confuso con l’anidride solforosa, ovvero con il diossido di zolfo, che ricorda l’odore dei fiammiferi appena accesi o della polvere da sparo. Se non supera una certa soglia di guardia può essere tollerato in alcuni stili di bassa fermentazione come le Keller franconi, che per loro natura prevedono tempi di maturazione più corti e nasi più rustici. A bassissimi livelli può essere una sensazione addirittura positiva che amplifica lo spettro olfattivo della birra.