Hallo, mein Name ist Weizen
Primo indizio: siamo confuse con le Bière Blanche.
Secondo indizio: a causa del nostro profilo sensoriale marcatamente orientato (questo va ammesso), e per giunta in direzione di un fruttato e di uno speziato entrambi di natura potenzialmente stucchevole (anche questo va ammesso), siamo talvolta considerate un poco monocordi e stancanti.
Terzo indizio: in quanto legate ai primi passi del percorso di avvicinamento del pubblico italiano a un’idea di bevuta che fosse diversa dallo standard delle Lager industriali degli anni Settanta del Novecento; e in quanto, spesso ancor oggi, funzionanti da “esperienza di transizione” tra il consumo di prodotti scaratterizzati a prodotti di qualità, il settore degli appassionati più evoluti tende a trattarci con una certa sufficienza (talvolta, diciamocelo, con un qualche snobismo), catalogandoci come sorsata nazional-popolare: una fase da attraversare, sì, ma da superare, prima di passare ad “amori brassicoli” più raffinati.
Beh, se non avete capito la nostra identità, non sappiamo davvero più come aiutarvi: siamo le Weissbier!
Una storia, due nomi. Ecco, allora, cominciamo a raccontarvi bene di noi. Delle nostre origini, della nostra storia, e del perché abbiamo due nomi: Weissbier, appunto, e il quasi equivalente Weizenbier. Il secondo significa, in italiano, proprio “birra di frumento”, perché con quello siam fatte, maltato per l’esattezza; in una percentuale, in ammostamento, che può raggiungere i due terzi abbondanti: e il resto è sempre malto, ma d’orzo. Il primo appellativo vuol dire invece “birra bianca” e si riferisce al nostro aspetto opalescente, dovuto alla consuetudine (cui si fa deroga soltanto nel caso di una nostra sottotipologia, quella delle Kristall: ve ne parleremo più avanti) di non sostenere interventi di filtrazione pre-confezionamento, conservando quindi una peculiare velatura, costituita da sospensioni di lievito e proteine (il grano ne è ricco). Con questo titolo, Weissbier, in Germania ci siamo fatte conoscere fin dal medioevo; ma si trattava di una qualifica che accomunava noi e tutta un’altra vasta collezione di prodotti tipici, non necessariamente a base di frumento. Come “Bianca”, allora, era indicata genericamente qualsiasi birra (“nebbiosa” o meno) avesse un colore appena più chiaro della media dell’epoca, tendenzialmente scura in virtù di una procedura di essiccazione dei cereali eseguita per esposizione diretta al calore di un fuoco acceso. Le cose cambieranno parecchio più tardi, diciamo più o meno a partire dalla metà dell’Ottocento, con il boom delle Lager (quelle parvenu!) e con la loro smanie di limpidezza. Ebbene, si pavoneggino pure con le loro trasparenze cristalline, la “corona” di Weisse da lì in poi è rimasta a noi; e ce la teniamo stretta, insieme all’altra, quella di Weizen. Sì, in sostanza due modi equivalenti di chiamarci: qualunque dei due vorrete usare, vi si capirà. Solo un’avvertenza: sapete che la Germania è una Nazione con tanti Stati; ecco, ognuno ha le sue abitudini, e guai a non rispettarle. E dunque, mentre i nostri due nomi sono percepiti come intercambiabili in Baviera (così come nel resto del Mondo), nelle altre regioni della Repubblica Federale, per essere sicuri di non essere fraintesi, meglio riferirsi a noi come a delle Weizenbier.
Sopravvissute al Reinheitsgebot. Un’altra vicenda sulla quale ci preme fare chiarezza è quella del Reinheitsgebot noto da voi in Italia come “Editto di purezza”. Si tratta di un provvedimento legislativo promulgato nel 1516 dal duca Guglielmo IV di Baviera: il quale, onde preservare per la panificazione gli allora scarseggianti raccolti di frumento e segale, impose di limitare a tre gli ingredienti utilizzabili: ovvero orzo, luppolo e acqua (il lievito, ancora no, voi umani non lo conoscevate). Avremmo potuto estinguerci, allora; ma il sovrano (nella sua saggezza, anche, sì, un poco interessata) stabilì che noi birre di grano potessimo continuare a essere prodotte da parte di membri del suo stesso casato, i Wittelsbach: che mantenne perciò tale prerogativa, concedendola eventualmente ad altri con specifico atto di deroga. Anche in questo caso, il quadro cambiato solo diversi secoli dopo. Anzitutto quando, nel 1872, re Luigi II (che di Guglielmo era discendente) assunse la decisione di abbandonare la birrificazione in proprio negli impianti dinastici, cedendo, in esclusiva, la facoltà di utilizzare frumento a Georg Schneider I, capostipite di un’impresa familiare che tuttora porta il cognome della sua famiglia, la Schneider-Weisse-Brauerei (allora a Monaco, oggi a Kelheim). Dopodiché, la situazione si è andata ulteriormente normalizzando, visto che la possibilità di preparare, confezionare e vendere Weizen venne restituita alla collettività. Anche grazie a disposizioni legislative entrate in vigore nel secolo scorso; nel 1906, se il Reinheitsgebot diveniva legge in tutto il territorio governato dal Kaiser tedesco, il suo testo veniva integrato con due aggiunte: il lievito tra gli ingrediente di base; e il nostro adorato grano, in forma maltata, come elemento consentito per produrre tipologie ad alta fermentazione.
Le Witbier: cugine, non gemelle. Sì, essere assimilate alle Bière Blanche del Belgio è un po’ seccante. Niente di particolare contro di loro, per carità: ma siamo diverse; parenti forse, ma non sorelle, né tantomeno gemelle. La confusione è dovuta anzitutto dall’identità di significato dei nostri nomi d’arte, Weissbier (in tedesco), Witbier (in fiammingo) e il poc’anzi citato Bière Blanche (in francese): termini che significano la stessa cosa, “birra bianca”, come detto. Eppure… C’è bianco e bianco! Ora vi spieghiamo analogie e differenze. In affinità con le nostre “parenti” c’è anzitutto l’impiego, in ricetta, di frumento: ma il nostro è maltato e può arrivare al 70%, mentra nel loro caso è usato in forma cruda e in quota tale da raggiungere più o meno il 50% della miscela secca. Seconda distinzione, mentre tra Fiandra e Vallonia, in bollitura, si aggiungono aromatizzanti diretti (coriandolo e scorze d’arancia amara, secondo il “disciplinare” classico), la nostra gestazione non si avvale di alcun additivo, e il profilo gustolfattivo che ci caratterizza è dunque frutto esclusivo dell’attività sviluppata dai lieviti selezionati (ceppi essi stessi diversi rispetto a quelli inoculati per preparare le nostre “cugine”). Certo che, a generare confusione, c’è il “comune denominatore” del look lattiginoso: anche loro, come noi, non essendo sottoposte a significative operazioni di filtrazione prima del confezionamento. E così, spesso (non solo in Italia), si tende a diluire quelle che (converrete) sono specificità piuttosto importanti, nella percezione di una sola grande “famiglia”.
Una tipologia con molte ramificazioni. Peraltro l’immagine della “famiglia” piace anche a noi, purché la si usi in modo corretto, a sottolineare le specificità che contraddistingue le numerose sottotipologie in cui si articola la nostra genealogia. Facciamo, allora, come si conviene alle persone ben educate, le presentazioni.
Hefeweizen. Che sono non filtrate lo dichiarano esplicitamente con il suffisso “Hefe” che significa lievito. Per il resto hanno colori tra il paglierino carico e l’ambrato; gli aromi, netti, sono in prevalenza fruttati (banana, in specie) e speziati (chiodo di garofano, vaniglia); il gusto, morbido in avvio, volge rapido all’acidulo, con cui la componente dolce sta in equilibrio anche grazie alla brillante effervescenza. L’alcol oscilla tra il 4,3% e il 5,6%.
Kristall Weizen: versioni filtrate, chiare, fruttate alle narici, acidule al palato; anch’esse da 4,3 a 5,6 gradi alcolici. Sul mercato italiano la Weissbier Kristall Klar della gamma Franziskaner.
Ur-Weizen: appellativo non proprio ufficiale (viene adottato da alcuni marchi, ma non designa una categoria univocamente percepita), si applica alle versioni ambrate; il cui assetto sensoriale ricalca (look velato, preminenza fruttato-speziata, alcol 4.3-5.6%) quello delle Hefe, spingendo però su toni maltati da biscotto e frolla. Etichetta di riferimento, la UrWeisse di casa Ayinger.
Dunkelweizen: scure, hanno tinte dal rame al bruno; aspetto velato; impianto gustolfattivo affine alle sorelle Hefe e Ur, ma volgente al tostato (nocciola, panificato dolce a lunga cottura); identico il range etilico (4.3-5,6%).
Weizenbock: potenziate in senso alcolico, tra il 6.5% e il 9%; look velato, colore dal dorato carico al bruno profondo; naso e palato incentrati su note intense: banana molto matura, fichi, prugna, mirtillo. La matriarca è la Aventinus (Schneider).