Il fusto da birra: dalla botte ai contenitori usa e getta
Quando mi siedo al bancone di un pub, dopo aver letto le birre disponibili alla spina, ne scelgo una e poi me la gusto. Di solito senza farmi tante domande. Ma a volte può capitare di chiedersi cosa succede esattamente, ovvero qual è il processo che permette alla birra di arrivare nel bicchiere. Andando a ritroso ho la mia pinta in mano; davanti il publican che ha provveduto alla mescita e, prima ancora, alla scelta del bicchiere e del tipo di spillatura (alla tedesca, alla belga; in due tempi, in tre tempi e via dicendo); la birra sgorga da appositi rubinetti, con freno o senza freno, dopo essere passata attraverso dei tubicini inseriti (solitamente) in un tubo mantenuto a temperatura da un sistema di raffreddamento; da qualche parte, a monte di tutto, c’è una cella o un magazzino in cui si trovano gli attacchi, le teste di lavaggio e soprattutto la birra e la bombola (di CO2 e/o di carboazoto) che immette gas nel contenitore in cui si trova la birra spingendola verso il rubinetto. Qua e là ci sono adattatori, riduttori e chi più ne ha più ne metta. Di ogni passaggio si potrebbe scrivere un trattato, e qualcuno lo ha già fatto, ma oggi mi interessa studiare il contenitore, il fusto, che viene riempito in birrificio e arriva al pub per la nostra felicità.
Il fusto in acciaio
La maggioranza dei birrifici usa fusti in acciaio, ma non è sempre stato così. Fino agli anni ‘50 infatti si utilizzavano contenitori in legno, piccole botti da cui la birra sgorgava a caduta, per gravità insomma. Oggi i fusti a caduta sono piuttosto rari e comunque si trovano in acciaio, in molti casi foderati di legno (o finto legno), che ha sempre il suo fascino. Il legno è difficile da sanificare e costoso da mantenere, con buona pace di falegnami e bottai che ormai si dedicano a costruire, aggiustare o rettificare barrique e botti soprattutto per le aziende vinicole. Il fusto in acciaio, a partire come detto dagli anni ‘50, ha rivoluzionato il modo di servire la birra, introducendo l’uso di bombole di gas, CO2 e, anche se meno utilizzato, carbo-azoto. Il gas ha il duplice ruolo di spingere la birra fuori dal fusto e di mantenerne la pressione interna, sostituendosi al liquido che fuoiriesce. Permette di gestire anche linee piuttosto lunghe, così che oggi i fusti sono spesso in una zona non visibile al pubblico. È molto resistente e, se ben manutenuto, cambiando di tanto in tanto le guarnizioni e lo spinone (il tubo, invisibile dall’esterno, che arriva quasi sul fondo in modo che la birra venga pescata dal basso), può durare praticamente in eterno. Regge pressioni interne molto alte, permettendo anche lunghe rifermentazioni, ed è totalmente impermeabile, non lascia cioè trapassare aria né luce e non disperde CO2, conservando quindi la birra (o altre bevande) molto a lungo, anche per anni. Sono anche facilmente impilabili, ne esistono di svariate dimensioni e forme. Anche i cask inglesi sono oggi in acciaio. Per contro è decisamente costoso e pesante anche da vuoto, elemento che alza i costi di spedizione. E’ ovviamente riutilizzabile, a patto che venga rispedito al birrificio: in Germania, Gran Bretagna e negli altri paesi da sempre abituati alla birra la logistica in questo senso funziona piuttosto bene, ma in Italia non è infrequente che i fusti vadano persi o rientrino dopo parecchi mesi. Anche a livello ecologico non sono il massimo. Benché i fusti in acciaio siano riutilizzati molte volte, non sono ecocompatibili: c’è infatti da mettere in conto il trasporto più pesante rispetto ad altri contenitori di nuova generazione oltre che il viaggio di ritorno al birrificio, e per lavarli e sanitizzarli si fa un uso ingente di detergenti, acqua ed energia. Senza considerare poi che i sistemi di lavaggio automatico non sempre sono efficaci, e soprattutto se il fusto è rimasto a lungo inutilizzato necessita di un lavaggio molto approfondito. Purtroppo non è sempre detto che l’operazione vada a buon fine, e in questi casi ci si accorge del danno solo bevendo!
Il fusto in PET
Le birrerie che trattano prodotti artigianali sicuramente conoscono i fusti in PET (PoliEtilenTereftalato, una particolare materia plastica della famiglia dei poliesteri derivante dal petrolio greggio molto utilizzata nel campo alimentare). Il vantaggio più grande è che sono usa e getta e che il PET è totalmente riciclabile. E’ inoltre molto leggero, quindi la spedizione costa e inquina meno. Usano attacchi Micro Matic universali, normalmente utilizzati per l’acciaio (baionetta europea ed americana), e anche quello presente sul fusto è in plastica riciclabile. Terminato l’utilizzo si stacca la testa dalla linea di spine e la CO2 fuoriesce da sola, svuotando il contenitore e permettendo così di accartocciarlo per destinarlo alla raccolta differenziata. I fusti sono prodotti con un film particolare, che ne migliora la tenuta trattenendo al meglio la CO2 e impedendo all’ossigeno di entrare. La tenuta garantita non è lunga, quindi non sono l’ideale per birre vintage, come non è il massimo la trasparenza del materiale, ma basta un cartone protettivo, nel quale di solito viene infilato il fusto intero o materiali coprenti con i quali sempre più spesso viene rivestito. Questi fusti sono compatibili con i più comuni macchinari di riempimento, basta dotarsi di un’apposita gabbia che impedisce che vengano schiacciati dalla macchina stessa. Possono arrivare al birrificio già pronti all’uso – sanificati e sterili, solo da riempire – oppure ci si può dotare di un soffiatore. Le ridotte dimensioni e lo scarso peso di questo contenitore rendono comunque il trasporto a basso impatto ambientale e non richiedono un enorme magazzino per lo stoccaggio. Si chiede però un po’ più di attenzione nel riempimento, soprattutto a quei birrifici che lo fanno in manuale, perché se l’attacco si rovina la birra si deteriora rapidamente. Lo stesso dicasi per i publican, che abituati ad usare attacchi e teste in acciaio, con la parte in plastica di questi fusti devono essere molto delicati e non forzare: mi è capitato di frequente di sentire lamentele perché l’attacco non veniva inserito correttamente, anche dai più esperti! Altro particolare da non sottovalutare è che se si staccano per pulire la linea, si perde CO2 e occorre quindi essere molto rapidi e ancora una volta molto delicati nel riattaccarli. Il ridotto impatto ambientale ne fa sicuramente un ottimo prodotto, e la scelta tra fusti da 15, 20, 30 o addirittura 40 litri (con un peso a vuoto di poco più di un chilo) permette grande flessibilità. Per il mercato italiano è un vantaggio notevole: un fusto da 15 o 20 litri non resta troppo tempo sotto l’impianto, permettendo una buona rotazione. Più recentemente è stata realizzata una versione più stabile che grazie a una base più larga, propone tre linee di prodotto: una assomiglia molto ai fusti di acciaio a “siluro”, con maniglie in plastica rigida in alto, base del medesimo materiale, facilmente impilabili e molto robusti; un’altra non prevede la parte in plastica rigida della base, garantendo comunque buona stabilità e impilabilità, così come la terza linea, la più semplice, che non utilizza plastica rigida. Tutti sono flessibili negli attacchi e nelle dimensioni (16, 20, 24 e 30 litri), leggeri, ecologici (considerando il riciclo delle componenti) e compatibili con le macchine riempitrici già esistenti in birrificio.
I KeyKeg
Più rivoluzionario è sicuramente il prodotto di una azienda olandese: il KeyKeg. In questo caso la birra si trova all’interno di un sacco laminato (ad uso alimentare) a sua volta contenuto in una specie di sfera di plastica. Per il servizio occorre un gas che si inserisca tra il sacco e la sfera esterna, schiacciandolo in modo da spingere la birra verso l’impianto di spillatura. Il grosso vantaggio è che la birra non entra mai in contatto con CO2 o altri gas, e che in realtà si potrebbe utilizzare anche aria compressa! Il sacco interno è totalmente a tenuta stagna e non fa passare luce, quindi la shelf life, la durata qualitativa della birra, è di un minimo di 9 mesi (il resto va a “rischio” del birrificio). Arrivano nei birrifici pronti al riempimento, cioè già sanificati. La sfera non starebbe in piedi, ma è previsto un cartone che li rende impilabili e stabili. Ne esistono due versioni, una da 20 e una da 30 litri, e poiché all’interno del sacco non entra ossigeno né altro una volta attaccato un KeyKeg può restare molti giorni collegato all’impianto senza che il prodotto si deteriori, garantendo maggiore flessibilità al pub. E’ prevista anche la versione Kask, pensata per le Real Ales britanniche, e il contenitore è riciclabile al 100%. Solo pregi? Ahimé no. Prima di tutto gli attacchi non sono compatibili ma proprietari, quindi occorre acquistarli, e i sistemi di riempimento automatici non sono facilmente utilizzabili, ma vanno modificati (e non in tutti i casi è possibile). Inizialmente queste palle di plastica erano dotate di un rivestimento in cartone che si deteriorava facilmente, oggi il formato si è evoluto e le plastiche rigide hanno sostituito il cartone garantendo maggiore stabilità. Non reggono le pressioni dell’acciaio e quindi se il birrificio calcola male la rifermentazione qualche rischio di scoppio può esserci, anche se i casi sono rari (la pressione massima tollerata è di 3,5 bar). Di aneddoti a riguardo se ne sentono in molti locali. Anche il riempimento ha dato un po’ di problemi ad alcuni birrifici, almeno italiani, ma in realtà basta seguire le istruzioni con grande attenzione. Nei pub ho visto celle frigo che non erano in grado di contenerli perché troppo larghi, problemi di spillatura (imputabili più al birrificio) con soluzioni più o meno creative (dal fusto capovolto a regolazioni strane di CO2). Per il riciclo occorre anzitutto svuotare dall’aria (o dal gas) la sfera, e in alcuni comuni separare la plastica dal sacco, tagliando il contenitore esterno. Non proprio agevole e, se ci si scorda di togliere il gas, anche pericoloso.