FocusIn vetrina

L’importanza del malto nella storia della birra

Quattro sono gli ingredienti base per produrre birra: acqua, malto, luppolo e lievito. Tra questi, il luppolo è senza dubbio l’ingrediente più citato, discusso e apprezzato degli ultimi anni. Curioso come non sia nemmeno indispensabile nella produzione: difatti è stato anche l’ultimo, tra i quattro, a essere stato integrato nelle ricette. Fino all’800, e in Inghilterra addirittura fino al 1500, al posto del luppolo si utilizzavano mix di erbe tra cui erica, rosmarino, mirto. Negli ultimi anni, l’attenzione si è spostata in parte sul lievito, grazie soprattutto alla diffusione delle birre acide. Del malto, invece, si parla poco, nonostante abbia segnato delle tappe fondamentali nell’evoluzione degli stili birrari. La sua produzione è un processo difficile che richiede una combinazione di tecnologia, conoscenza ed esperienza affinate nel corso di millenni. Ma cos’è precisamente la maltazione? Come si è evoluta nel tempo? Chi ha scoperto questa tecnica? Proviamo a fare un viaggio nel tempo per scoprire come il malto d’orzo abbia profondamente segnato la storia birraria e l’evoluzione degli stili.

Anzitutto chiariamo cos’è il malto d’orzo e perché viene impiegato nella produzione della birra. L’orzo è un cereale che cresce in forma di spiga. Questa contiene piccoli chicchi che, una volta caduti a terra e bagnati, germogliano per produrre una nuova pianta. Contengono al loro interno riserve di amido, un carboidrato complesso formato da zuccheri semplici ben legati tra loro. L’amido è ricoperto da uno strato esterno, la glumella o buccia, e inglobato in una struttura proteica che lo rende difficilmente accessibile ai microrganismi esterni e poco sensibile agli agenti atmosferici. In pratica, il chicco d’orzo è un bunker di nutrienti che si attiva quando rileva le giuste condizioni climatiche per sostenere la crescita del germoglio. Quando il chicco germoglia si attivano gli enzimi che iniziano a scomporre gli amidi trasformandoli in zuccheri semplici. Questi costituiscono il nutrimento per la piccola piantina che li consumerà durante la crescita fino a piantare le radici a terra.  

La maggior parte dei lieviti non ha modo di fermentare carboidrati complessi come gli amidi, o comunque non riesce a farlo in tempi brevi. Il chicco d’orzo appena raccolto non è quindi adatto alla produzione di birra. L’intuizione geniale la ebbe chi per primo pensò di avviare artificialmente la germogliatura bagnando il chicco di orzo, in modo da attivare gli enzimi che scompongono la struttura amidacea. Il trucco sta nel fermare la germogliatura prima che tutti gli amidi vengano trasformati in zuccheri e consumati dal germoglio. Per mantenere attivi gli enzimi e bloccare la germogliatura, il chicco viene prima bagnato e lasciato germogliare, poi riscaldato e asciugato delicatamente (un riscaldamento eccessivo disattiva gli enzimi). Così facendo si ottiene il malto d’orzo. Quando il malto arriva in birrificio, il birraio lo tiene a bagno in acqua calda per circa un’ora, intorno a una temperatura di 66°C. Queste condizioni, che costituiscono la cosiddetta fase di ammostamento, rimettono in moto gli enzimi attivati nella maltazione. Questi trasformano tutto l’amido residuo del chicco in zuccheri semplici che possono essere facilmente e velocemente trasformati in alcol da qualsiasi ceppo di lievito. Così è nata la birra.

La domanda ora è: chi ha avuto la geniale intuizione di maltare i cereali? La risposta non è ben chiara, anche perché si tratta di un processo affinato nel corso di tantissimi anni. Diversi studi archeologici raccontano di bevande alcoliche prodotte partendo dai cereali, in particolare dal grano, datate addirittura intorno al 3.000 AC. Come facevano a fermentare i cereali? Alcuni ipotizzano che i nostri antenati lasciassero i chicchi in ammollo per diverso tempo, generando una germogliatura spontanea, per poi lasciarli asciugare al sole. Ipotesi plausibile anche se, da un punto di vista pratico, un chicco d’orzo lasciato semplicemente in ammollo tende ad ammuffire piuttosto che a germogliare. È più probabile invece che le prime birre venissero prodotte da cereali non maltati, macinati finemente su roccia. Alcuni ricercatori hanno infatti recentemente dimostrato che è possibile far partire una fermentazione anche impiegando solo cereali non maltati: la produzione di alcol è molto minore e la birra non è particolarmente buona, ma con una macinatura molto fine e tempi più lunghi, una parte della farina viene effettivamente fermentata. Di certo il processo non è efficiente, ma è sicuramente un punto di partenza. Con il passare degli anni qualcuno deve essersi reso conto che i chicchi germogliati erano più morbidi e che la birra prodotta con questi chicchi fermentava meglio; ha iniziato quindi a sperimentare diverse tecniche per farli germogliare, seccarli e renderli conservabili e utilizzabili per la produzione.

Nei tempi antichi (e nei paesi caldi) è probabile che l’essiccatura avvenisse semplicemente esponendo i chicchi bagnati e germogliati al sole per qualche ora. Questo manteneva i chicchi abbastanza chiari, gli enzimi attivi, rendendo di fatto possibile la produzione di birre chiare. Contrariamente a quanto si crede, infatti, e come sostiene anche lo storico Martyn Cornell, le birre chiare non sono state un’invenzione recente, ma un prodotto artigianale radicato nella storia dei secoli. Nei paesi più umidi e piovosi, come la Gran Bretagna, l’essiccatura al sole non era però praticabile. Il malto germogliato veniva probabilmente essiccato al fuoco di legna. Oltre a generare malti dal colore inconsistente per via della difficoltà nel controllo dell’applicazione del calore, questa pratica metteva i chicchi di orzo a contatto con il fumo della legna, generando una serie di aromi sgradevoli che inevitabilmente finivano nella birra. L’utilizzo del carbone vegetale ha migliorato il controllo della temperatura ma non ha risolto il problema del contatto con il fumo.

Il primo vero punto di svolta arrivò alla fine del 1600, quando un certo Abraham Darby intuì che era necessario trattare il carbon fossile per privarlo delle componenti aromatiche sgradevoli. Tramite un particolare processo di cottura, Darby riuscì a rimuovere i composti solforosi e gli altri aromi sgradevoli dal carbon fossile, inventando di fatto il carbon coke. Grazie a questa scoperta, la produzione fece un enorme balzo in avanti: era finalmente possibile produrre un malto chiaro (malto pale) ricco di enzimi e dal sapore gradevole. Teoricamente, questa scoperta avrebbe dovuto dare una spinta alla produzione di birre chiare in tutta l’Inghilterra. Invece, nella Londra del 1700, iniziarono a diffondersi le porter, birre scure prodotte ancora con malto brown, essiccato a legna, dai toni aromatici di caramello bruciato, caffè e cioccolata. L’essiccatura a legna gli conferiva note affumicate che finivano inevitabilmente nella birra. La sua diffusione si spiega con il fatto che questo malto all’epoca era ancora meno costoso del Pale.

La situazione iniziò a cambiare quando, nel 1784, John Richardson pubblicò uno studio sul saccarometro, lo strumento che misura il contenuto zuccherino di una soluzione. Richardson mostrò come il malto brown producesse meno zuccheri fermentabili rispetto alla stessa quantità di malto pale. I produttori di porter si fecero due conti e in breve iniziarono a utilizzare il malto pale al fianco del brown. Per mantenere il colore scuro caratteristico delle porter ripiegarono su additivi come bacche di sambuco o radici di liquirizia. Qualche anno dopo, nel 1817, Daniel Wheeler registrò un brevetto per tostare i cereali a un livello mai raggiunto prima, senza mandarli in autocombustione. Il malto d’orzo prodotto con questa tecnica si diffuse con il nome di black patent, o semplicemente malto black. Ai produttori di porter piacque molto: affiancato in piccolissima quantità al malto pale, scuriva il colore al punto giusto caratterizzando la birra con aromi tostati di caffè e cioccolata.

L’arrivo del Mash Tun Act nel 1880, che spostava la tassazione dal peso del malto al contenuto alcolico della birra finita, rese legale l’utilizzo di cereali non maltati nella produzione di birra. In Irlanda, la Guinness ne approfittò subito sfruttando la tecnologia introdotta da Wheeler per tostare l’orzo non maltato, meno costoso dell’orzo maltato. Nacque così la dry stout irlandese, stile che ha fatto la storia del marchio Guinness nel mondo.

Ma in Inghilterra non esistevano solamente birre scure. Il malto pale, che a Londra attecchirà solo dopo la metà del 1800, in altre zone fu molto apprezzato fin da subito. Nella cittadina di Burton-Upon-Trent si producevano birre chiare fin dai primi del 1700. Il malto pale si sposava molto bene con l’acqua povera di bicarbonati e ricca di solfati che rendeva particolarmente efficiente ed efficace la produzione di birre chiare e luppolate. Queste birre arrivarono a Londra solo dopo la metà del 1800, grazie alla ferrovia che collegò le due città.

Lo stesso periodo in cui in Europa veniva prodotta la prima birra chiara a bassa fermentazione: nel 1842, in Boemia, il birraio di origini bavaresi Josef Groll diede alla luce la prima pilsner. Uno stile destinato a dominare il mercato per tanti, tantissimi anni a venire, nato grazie all’abbinamento tra malto chiaro, prodotto grazie alle innovazioni tecnologiche inglesi, e lievito lager, utilizzato da anni in Baviera.