Fermenti non convenzionali: oltre il Lambic. Gli kveik norvegesi
Lieviti non convenzionali: c’è vita oltre il Pajottenland. La cosa è ormai nota, alla luce delle molteplici esperienze in corso ormai da diversi anni in svariati angoli del pianeta, da quando il filone delle birre a fermentazione spontanea, e acide in generale, ha ripreso vigore, alimentato da correnti d’interesse via via crescente. Ciò che forse meno si conosce è la galassia delle pratiche tradizionali legate, appunto, al metabolismo di ceppi inusuali, diffuse esse stesse qua e là per il globo: un mondo che adesso è oggetto di ricerche e riscoperta, nel contesto della riaccesa fiamma per metodiche produttive e profili sensoriali atipici. Ecco, uno dei sentieri di esplorazione condotti su questo fronte ci porta in Norvegia, a raccogliere notizie attorno alla vicenda del kveik (una forma dialettale per il termine lievito), anzi, dei kveik.
Sì, il plurale è d’obbligo, trattandosi di colture riutilizzate per generazioni e generazioni successive, nelle attività di brassaggio condotte all’interno delle farmhouse che popolavano il Paese scandinavo. E dunque, data la loro gestazione, colture estremamente diverse tra loro, sia per composizione (in realtà si deve parlare di compagini formate, ciascuna, da più ceppi singoli); sia – conseguentemente – per gli effetti sensoriali generati. Indagate – volendo toccare al volo la letteratura di genere – ad esempio nel volume Beer and brewing traditions in Norway (Odd Nordland, 1969), queste comunità di lieviti (e le pratiche ad esse legate) rappresentavano un tempo la regola. Almeno fino a quando Emil Christian Hansen non ebbe introdotto il sistema dell’inoculo del ceppo in purezza. Negli anni dell’avanzata dell’industrializzazione, furono poi prevedibilmente marginalizzate; e chiuse sostanzialmente in riserve legate a tenaci costumi localissimi: in particolare nei Distretti di Hardanger, Voss, Sogn, Nordfjord e Sunnmøre. Oggi, invece, sono state, come detto, nuovamente scovate; e, alcune di esse, trasmesse a laboratori scientifici per le analisi e la propagazione, fino ad andare a dar linfa alle sperimentazioni degli homebrewers, nonché alla rinascita (in corso) del farmhouse way of brewing.
Qual era la tecnica per il mantenimento della coltura? Per la conservazione si seguivano diverse modalità: in semplici bottiglie d’acqua, se non in pozzi; quindi le si utilizzava prevalentemente in forma fresca e liquida, sebbene non mancassero opzioni per la disidratazione: su anelli di paglia, su pezze di panno o anche in ciocchi di legno opportunamente forati, chiamati tronchi per il lievito (yeast logs). Quanto alla già accennata difformità dei risultati in fermentazione (importante tratto comune è peraltro la propensione a lavorare a temperature anche molto alte, fino a 37 °C; e dunque l’inclinazione a generare esteri in quantità), ecco un assaggio delle tematiche olfattive prodotte da alcuni kveik studiati e classificati. Lo Stranda kveik viene associato a descrittori quali limone, noce, cereale e paglia; lo Hornindal (con batteri coinquilini) a note fruttate, lattee, caramellate, mielate e fungine; il Muri a sentori terrosi, fruttati e solforati.