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Cosa significa essere homebrewer nel terzo millennio

Francesco Antonelli e Angelo Ruggiero, autori del recente libro Fare la birra in casa ci spiegano cosa significa essere homebrewer nel terzo millennio e perché per un birraio casalingo è importante rimanere aggiornato e stare al passo con i tempi.

La prima domanda che una persona qualunque pone all’homebrewer di turno è sempre la stessa: “con che strumenti la produci?”. Se qualche anno fa la risposta poteva essere evasa facendo riferimento a semplici pentole con rubinetti, oggi farsi comprendere parlando di pompe di ricircolo e sistemi All-In-One potrebbe essere impresa più ardua. Il tempo, la passione per produrre in casa e la richiesta di farlo in spazi domestici sempre più piccoli ha prodotto evoluzioni enormi negli ultimi tempi. Non deve essere stato facile mettere insieme i pezzi di un fantomatico impianto di homebrewing nei primi anni ‘90. Da oltreoceano, però, giungevano notizie che qualcuno non solo ci riuscisse ma che ottenesse anche buoni risultati, diffondendo sempre più questo verbo. A leggere l’operato di Charlie Papazian, tra report sui primi forum e il suo The Complete Joy of Homebrewing, ci si rendeva conto di quanto fosse importante partire da un assunto: cercare di imitare i processi e replicare il layout di un birrificio vero e proprio, con strumenti ugualmente funzionali ma molto più semplici, era la via più probabile verso l’obiettivo di produrre birra in casa.

È pur vero che la materia prima che si trovava in Italia nei primi anni ‘90 era quasi solamente estratto di malto, perciò tutto il processo di ammostamento era per forza di cose da bypassare. Scaldare questo estratto per poi diluirlo e luppolarlo (nel caso già non lo fosse) non era un compito talmente arduo da impedire ad una semplicissima pentola in alluminio di poterlo assolvere, sfruttando tra l’altro il suo bassissimo costo, la leggerezza e la versatilità. Negli anni in cui sono stati disponibili i primi malti in grani è stato possibile aggiungere al processo casalingo una vera fase di ammostamento, praticando una regolare infusione in acqua di malti macinati. L’obiettivo della macinazione dei grani aveva – e ha ancora – come unico scopo quello di frantumarli senza sfarinarli e si poteva fare modificando anche le diffuse macchine per pasta fatta in casa, butterandone i rulli a colpi di utensili per creare l’attrito necessario tra questi e i grani (rendendole così irrimediabilmente compromesse per il loro uso nativo con somma gioia della nonna).

Il modello a cui ispirarsi era quello classico “a tre tini” diffuso ancora oggi nei moderni birrifici, dove al di là delle diverse configurazioni, due dei tre tini sono riscaldati e uno è di appoggio per acqua di sparging o per filtrare il mosto. Il riscaldamento più facile da attuare era quello con fiamma diretta, che però presupponeva la presenza di pentole in acciaio inox con fondo spesso. Difficilmente si era in grado di farlo con pentole rimediate in cucina e sui fornelli casalinghi (per i canonici 23 litri bisogna bollire qualcosa come 30 litri di mosto): la soluzione più logica era adottare un fornellone a gas corredato di bombola e il suo habitat naturale era decisamente l’esterno del balcone di casa o il garage.

Ai tempi dei modem 56k e dei forum, l’unica salvezza per fare le cose per bene era il passaparola e una buona dose di buon senso per immaginarsi come le singole decisioni si sarebbero ripercosse sugli spazi domestici, sulle finanze e sul risultato finale. Una volta trovata la soluzione per assicurare sufficiente calore per l’ammostamento e soprattutto per la bollitura, si doveva pensare al sistema filtrante, vero snodo del processo e fase cruciale per la determinazione di una buona efficienza. Il primo step poteva essere affidarsi al filtro Zapap: ideato da Charlie Papazian, non era altro che un banalissimo secchio in plastica alimentare forato sul fondo, inserito in un altro secchio in plastica dove il mosto filtrato veniva raccolto. Qualcosa di meno artigianale è arrivato con la diffusione del cosiddetto filtro Bazooka, che per essere assemblato richiedeva un costo ugualmente basso: bastava un po’ di tubo idraulico flessibile, privato della guaina interna, raccordato a formare un cerchio con un connettore “a T” e inserito in un foro praticato all’estremità bassa della pentola. La versatilità di questo sistema permetteva anche l’utilizzo in un frigo da campeggio, spesso sostituito alla pentola in alluminio nella filtrazione e in ammostamento. Non potendo essere scaldato, però, questo metodo aveva un limite o forse era solo un’opportunità per produrre un mosto con infusione all’inglese: sfruttando pentola e fornelli già in possesso in casa, si raggiunge lo step a temperatura maggiore attraverso l’aggiunta diretta di acqua calda di una quantità opportunamente calcolata, ottenendo anche il vantaggio di saltare la successiva fase di sparging, avendo aggiunto già tutta l’acqua necessaria. Una delle soluzioni più eleganti era quella del falso fondo, da realizzare sempre in acciaio inox poco sopra al foro ricavato per un rubinetto, per i quali era indispensabile l’aiuto di qualche artigiano locale in grado di lavorare bene l’acciaio. I più audaci usavano resistenze elettriche, pompe di ricircolo e cablaggi vari, qualche evoluzione si è iniziata a vedere quando sono arrivate sul mercato le prime pentole elettriche a resistenza, prese in prestito dal mondo della preparazione delle conserve, come quelle tedesche Bielmeier.

Condurre l’ammostamento in questi rudimentali pentoloni riscaldati era abbastanza semplice, al netto del controllo e della verifica della temperatura e soprattutto del pH. Quest’ultimo è sempre stato sottovalutato agli inizi, basandosi sul fatto che fosse sufficiente controllare con una cartina tornasole che si fosse nel range tra pH 5.0 e pH 6.0, raggiungibile con l’aiuto dell’acido citrico spremuto da uno o due limoni, in caso di necessità. Quella che oggi sembra una follia non era altro che uno dei metodi con cui una generazione di homebrewer è cresciuta, tra successi e fallimenti, per poi arrivare a comprendere che questa e altre fasi andavano curate in modi migliori. Anche l’ambito della fermentazione ha vissuto grossi cambiamenti, partendo dai classici fermentatori con coperchio giallo e termometro a cristalli liquidi, da monitorare costantemente e spostare in luoghi più caldi o più freddi, aiutati solo da camere di fermentazione in polistirolo o fascia riscaldante. Tuttora molti homebrewer continuano a lavorare in questa modalità minimale, che non ha nulla di sbagliato a patto che si abbia il buon senso di produrre birre attraverso un ammostamento ragionato e una filtrazione efficace, scegliendo per la fermentazione lieviti poco sensibili agli sbalzi di temperatura e affidabili in termini di caratteristiche tecnologiche, vitalità e flocculazione. Pena la qualità del risultato finale.

La prima vera rivoluzione nel metodo di produzione casalingo è arrivata dall’Australia. Qualcuno ha avuto la brillante idea di replicare su scala più grande il principio della bustina di tè immersa nella tazza di acqua calda. Del resto, se si sostituiscono i cereali alle foglie, il concetto alla base dell’infusione non è molto diverso: in entrambi i casi si estraggono sostanze da una fonte vegetale tramite infusione in acqua calda. Perché non provare ad applicare il principio della bustina di tè alla fase di ammostamento dei cereali, allora? L’idea non era affatto male, tant’è che si diffuse a macchia d’olio in Australia, poi in America e in pochi anni in tutto il mondo. Mettendo i cereali in una sacca si semplifica notevolmente il processo produttivo: meno attrezzatura, perché si fa bollire il mosto nella stessa pentola dell’ammostamento, una volta tolta la sacca con in grani; minore tempo di produzione, dato che si salta completamente la fase di risciacquo delle trebbie; ovviamente minori costi, visto che l’attrezzatura necessaria per la produzione si riduce (una sola pentola, niente filtri o doppiofondo).

Nasce così il metodo Brew In a Bag, detto anche BIAB. Un approccio alla produzione che da sempre fa storcere il naso ai puristi, e a ragione (almeno in parte). Eliminare la fase di filtraggio fa arrivare in bollitura un mosto torbido, con potenziali conseguenze negative sulla stabilità della birra nel tempo. Inoltre, l’estrazione della sacca dal mosto espone le trebbie all’aria, favorendo l’ossidazione a caldo, già stimolata dalle gocce di mosto che scendono dalla sacca mentre la si estrae. Considerando che spesso si lascia sgocciolare la sacca e a volte addirittura la si strizza per recuperare un po’ di mosto zuccherino (saltando la fase di risciacquo delle trebbie l’efficienza del sistema di riduce), risulta comprensibile che i puristi rabbrividiscano di fronte a questa sorta di affronto alla tradizione. Se tutto ciò è teoricamente vero, all’atto pratico le birre prodotte in BIAB si sono sempre difese bene, anche nei concorsi ufficiali. Le ultime generazioni di homebrewer sono cresciute con il BIAB, ed è probabile che proprio grazie a questo approccio “poco ortodosso” la birra prodotta in casa sia complessivamente migliorata. Il BIAB ha abbassato le barriere di ingresso alla produzione casalinga, riducendo costi e tempi di produzione con effetti trascurabili (spesso impercettibili) sulla qualità del prodotto finito.

Il metodo è piaciuto a tal punto che negli ultimi anni si è diffusa una variante tecnologica del BIAB, ovvero i sistemi All-In-One. Dal nome stesso (tutto-in-uno) si evince che il principio è simile – sebbene non identico – a quello del BIAB: semplificare l’attrezzatura riducendo i tempi di produzione. Il fulcro degli All-In-One è un cestello inox al cui interno vengono stipati i grani; il cestello si estrae poi dall’alto una volta terminata la fase dell’ammostamento. Stesso principio del BIAB, alla fine dei conti, con un cestello al posto della sacca in poliestere. Il vantaggio è che il cestello, essendo rigido, si può posizionare in equilibrio sopra la pentola per fare un risciacquo della trebbie e aumentare l’efficienza del processo. Oppure estrarlo e saltare il filtraggio come nel BIAB, riducendo i tempi di produzione. Gli All-In-One sono anche dotati di una piccola pompa magnetica per il ricircolo del mosto durante la fase di ammostamento e del controllo automatico della temperatura, una caratteristica che rende le operazioni di produzione ancora più semplici ed efficienti. Sebbene si tratti di sistemi di produzione non completamente “ortodossi” dal punto di vista dei sacri crismi produttivi, gli All-In-One hanno reso l’homebrewing accessibile a tutti, con grande beneficio per l’intera comunità in termini di diffusione della conoscenza.

L’evoluzione tecnologica continua a interessare tutte le fasi del processo produttivo. La riduzione dei prezzi, l’avvento sul mercato dei prodotti cinesi a import diretto, ma soprattutto la voglia di migliorare le proprie produzioni, hanno aperto il mercato a una serie infinita di accessori tecnologici, cambiando per sempre il modo di fare birra in casa. Ed ecco arrivare sul mercato dispositivi elettronici come il Tilt o il Plaato, che permettono di misurare in modo continuo la densità del mosto in fermentazione; lo SmartPID per controllare, anche da remoto, la temperatura di fermentazione o automatizzare la pentola di ammostamento; sperimentazioni da veri geek come AxTherm, controller assemblabile basato su Arduino. Ma ne esistono moltissimi altri. Oltre all’elettronica, iniziano a entrare nelle case degli homebrewer fermentatori che tengono la pressione, simili a quelli utilizzati in birrificio, alcune volte vere e proprie repliche in miniatura (piuttosto costose) di fermentatori o maturatori isobarici professionali. Ma non solo, come abbiamo descritto in queste pagine della rivista, la paura dell’ossigeno sta cambiando radicalmente i sistemi di imbottigliamento casalingo.

C’è sempre chi mostra perplessità di fronte all’innovazione ricordando che per anni si sono prodotte in casa ottime birre senza dispositivi elettronici, imbottigliatrici isobariche o diavolerie simili. D’altro canto, è anche vero che 20 anni fa non bevevamo le birre luppolate con cui ci viziano oggi i birrifici italiani (e stranieri) e nemmeno così tante basse fermentazioni nostrane di pregiata fattura. Si alza il livello di quello che beviamo, aumentano le aspettative, cambiano le esigenze dei produttori casalinghi. Nessuno ci vieta di continuare a fare birra in casa con una pentola sui fornelli della cucina, se i risultati ci soddisfano. Ma avere tante attrezzature, ingredienti e fonti di informazione a portata di click rappresenta un valore inestimabile. Essere homebrewer oggi è una grande avventura ricca di sorprese e stimoli.