Ricordi di birre belghe ormai estinte
Quando, ormai poco meno di 40 anni fa, mi innamorai delle birre belghe, contraendo quell’irreversibile malattia-passione dalla quale fortunatamente non si può e non si vuole guarire, le mie fonti erano rappresentate principalmente da libri (preferibilmente in lingua francese ma, a volte, forzatamente, in lingua fiamminga) e da incessanti viaggi nelle terre sante delle Fiandre e della Vallonia. Nel mio sdrucito Vangelo secondo Crombecq e nello sterminato archivio delle pubblicazioni del Museo di Lustin, rimanevo particolarmente affascinato dai nomi di birre, a volte impronunciabili, che non avevo mai trovato, nonostante la mia spiccata dote di cacciatore, in caffè, supermercati, beer-shop all’ingrosso, depositi, magazzini e così via. Ben presto mi resi conto che tali nomi erano quasi sempre riferiti a birre locali che prendevano il nome dal villaggio o dalla zona in cui erano tradizionalmente ed anticamente prodotte. Così come purtroppo mi resi conto del perché non le avessi mai trovate. Facile, tali birre erano ormai estinte, per la maggior parte anche da molto tempo. Cause di tale estinzione possono essere molteplici ma senza dubbio la principale si deve imputare al prorompente avvento delle pils che tuttora, incredibilmente, coprono più del 70% del consumo di birre del popolo che può vantare il maggior, straordinario ed esaltante insieme di stili e tipologie diverse.
Ricordo che la prima che scoprii nei libri (dato che iniziava con due “a”) e che mi colpì particolarmente si chiamava Aarschotes Bruine (la Bruna di Aarschot) che naturalmente prendeva il nome dal villaggio a est di Bruxelles, nel Brabante Fiammingo. Ebbi poi la fortuna di poterne assaggiare una dall’ultima bottiglia (senza alcuna etichetta) dimenticata in cantina dal suocero di un amico belga che era nato e viveva ad Aarschot. Probabilmente era ormai marcia ma il solo fatto di poterla condividere con un vecchietto sdentato dai capelli candidi mi rese felice come spesso (e forse solo) riesco ad esserlo nella mia seconda (o forse prima) patria.
Altra birra che riuscii rocambolescamente ad assaggiare, stavolta grazie ad un publican-collezionista di Lovanio era la locale Peeterman, simile ad una witbier ma dal colore ambrato e, secondo l’autorevole storico Charles Fontaine, prodotta con malto non mondato dalle radichette.
Altra impresa impossibile ma ottenuta con successo fu poter assaggiare la leggera Bière de Liège con aggiunta di un liquore locale non lontano dal jenever chiamato in dialetto pecket.
Grazie alla mia veneranda età e alla mia proverbiale curiosità sono invece riuscito a bere le due ultime specialità di Diest, la bruna Gildenbier e la nerissima Diesters con orzo, frumento e avena macinati insieme.
Stessa cosa per due gemme delle Fiandre Orientali come la Uytzet di Wetteren e la Zottegem dell’omonimo villaggio. La prima ebbe un tal successo nel diciannovesimo secolo a Bruxelles arrivando addirittura a minacciare il favore e il conseguente consumo del lambic e del faro!
Fu più facile per me fare grandi bevute della Mechelschen Bruynen (Brune de Malines) della birreria Het Anker (quella delle Gouden Carolus) la cui produzione è stata sospesa, per la scarsa richiesta, qualche anno fa.
Riuscii addirittura a presentare, in una delle prime pionieristiche degustazioni/abbinamento realizzate in Italia, una birra commissionata dalla “Confraternita del coniglio alla birra”. Per la cronaca, si trattava della Schwendi della oggi defunta birreria Devaux di Phillipeville
Invece non riuscii mai a trovare la Seef originale, antica specialità di Anversa (speziata con cannella, coriandolo e chiodi di garofano), recentemente riprodotta, ma ovviamente non è e né mai sarà la stessa cosa!
Eh sì perché se un animale estinto, come il Dodo ad esempio, non potrà mai più tornare tra noi, una birra estinta in teoria potrebbe farlo, magari cercando di riprodurne la ricetta e questo è avvenuto e sta avvenendo ma temo che, più che per passione per le tradizioni, sia per ragioni di bieco marketing e di vil denaro.
Non è il caso della mia adorata famiglia Carlier della Brasserie de Blaugies che ha cercato di stare il più fedele possibile alla ricetta originale della Darbyste fatta dalle massaie dell’Hainaut con l’aggiunta di succo di fichi. Anche Karl Verhareghe ha riprodotto la Caves, antica specialità del villaggio di Lier, ma qui la vicinanza con l’originale era davvero difficile da raggiungere. Totalmente deluso invece dalle versioni della Grisette riproposte dalla Saint Feuillien, lontane anni luce dall’originale, mentre ne ho pescata più di una meno lontana ricreata dagli ineffabili craft brewers americani.
Grande rimpianto per non aver potuto mai provare né la dissetante Birra di Pittem, decenni fa popolare a Bruges e sulle spiagge di Blankenberghe nel Mare del Nord, né tanto meno la Zoeg (detta la birra dei dottori), grande specialità di Tienen (Tirlemont in francese) della birreria Pierraerts. Ebbi un fugace flirt con una bellissima (forse troppo) ragazza della città che poi andò a studiare il cinese in Cina. Probabilmente non mi innamorai mai di lei ma piuttosto mi innamorai (in senso lato) più di suo zio che, seduto al nostro tavolo di un caffè per operai, mi fece conoscere l’esistenza di questa birra a lui così cara che aveva effetti benefici e che come diceva lui era solo nostra e non di quei “bastardi” della vicina Hoegaarden che ce l’avevano copiata chiamandola Strieep. Cosa poi ribadita e confermata dal citato Charles Fontaine al quale devo moltissimo, ma col quale confesso di aver avuto rapporti di amore e odio. Amore quando, a Bruxelles, sedevo con lui nel suo caffè Au Père Faro (suo soprannome) nella Chaussée d’Alsemberg a bere e parlare a 360° di tutto ciò che era belga, birre in primis. Odio con litigata animata quando parlava male della famiglia Van Roy/Cantillon bollando la gueuze come troppo acida e quindi distante dalle originali. Non era molto gradito (uso un eufemismo) da Jean-Pierre, e in effetti non osò più varcare la soglia della birreria di rue Gheude 56.