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Aromi artificiali in una birra: è possibile riconoscerli?

Aromi sì / Aromi no / Se famo una pastry, parafrasando la celebre canzone di Elio e le Storie Tese: il dilemma sembra essere diventato uno dei temi caldi degli ultimi due anni se non addirittura, molto più generalmente, un dibattito da discutere a monte in ambito produttivo. È un bene? È un male? Riusciamo davvero a riconoscerli e, se sì, come li distinguiamo dagli ingredienti cosiddetti naturali? Domande che sui social, tra appassionati, puntualmente riemergono ogni qualvolta si affronta la popolarità di qualche nuova IRS spinta su aggiunte inusuali – per esempio la banana, architrave principe che sta caratterizzando i trend attuali, si vedano la Bananaversary di Other Half o la Fat Elvis Jifforia di Main & Mill, due tra le pastry più desiderate dei recenti mesi. Le opinioni sono più o meno le stesse, sempre: chi gli piace comunque, chi parla di presa in giro da parte dei birrifici, i quali – secondo appunto la teoria della burla commerciale – inonderebbero il mercato di prodotti fasulli, drogati di additivi per pomparne la carica olfattiva, che vengono poi pagati a caro prezzo dai geek moderni.

Che l’adozione di estratti e aromi (qualcuno utilizzerebbe lo scomodo termine “fialette”, ma ci arriviamo dopo) oggi sia un po’ sfuggita di mano è sicuramente vero, ma certe posizioni da veri e propri baby boomer della birra, immaginando un borbottio cui si accompagna lo scuotere la testa del solone di turno, fanno abbastanza tristezza. L’utilizzo della chimica (mi si consenta la semplificazione) nella nostra bevanda preferita è infatti storicamente documentato, consta di un’ampia letteratura reperibile con facilità e non si limita affatto alle produzioni industriali. Emblematico, e gli addetti ai lavori avvezzi a un’apertura internazionale nel reperire le informazioni lo ricorderanno di certo, il celebre pentalogo di Vinnie Cilurzo, nome che non ha bisogno di presentazioni, fornito all’American Homebrewers Association per chi volesse migliorare la propria ricetta di IPA. Il punto numero quattro parla chiaro: “Consider experimenting with pure resin Co2 hop extract for the bittering addition. Pure resin hop extract still needs to go through an isomerization stage in the boil, but, you are adding a lot less green matter which can lend a very clean hop character and bitterness”. Insomma, persino l’inventore delle Double IPA ci diceva, tempo addietro, di dormire sonni tranquilli e sfruttare gli estratti per godere del loro massimo vantaggio: facilità di pulizia e abbattimento delle preoccupazioni nel gestire la “materia verde” – che siano pellet o fiori. Sacrosanto.

Allargando il discorso si può analizzare dunque la costruzione delle adjunct e pastry IRS alla stessa maniera, per mezzo di artifici aromatici: la loro facilità di gestione azzera le problematiche relative all’uso di ingredienti grezzi dove il rischio della marcescenza potrebbe essere alto. Si pensi al cocco, alla nocciola, frutti i cui oli sono una potenziale fonte di irrancidimento con tutto ciò che ne consegue nell’impatto organolettico, specie andando incontro al fattore tempo. Gli indicatori Please Drink Fresh sulle Imperial Stout, per quanto aberranti e indice di marketing secondo le logiche del puro consumismo, hanno in fondo un senso. Va detto che già l’impiego di materia essiccata, de-idratata, costituisce una valida variante per impedire comunque i problemi di cui sopra, ma, qualora si propendesse per la strada degli estratti, non ci sarebbe nulla di drammatico. A chi storce il naso sostenendo che la bravura sta nel saper maneggiare a dovere il frutto vero e proprio, bisognerebbe rammentare che all’aumentare di un batch (posto che sia ancora permesso ingrandirsi, oggigiorno, prima che i paladini dell’artigggianale a tutti i costi rendano illegale anche questo…) certe difficoltà di lavorazione crescono in modo esponenziale. Per cui, a certi livelli, semplificare i passaggi con la tecnologia potrebbe costituire un’esigenza, piuttosto che sopperire a una presunta mancanza di capacità professionali o di “artigianalità”. E però ancora, nonostante le varie dimostrazioni di sdoganamento di alcune pratiche, si potrebbe sempre ribattere che l’ingrediente fisico, fresco, è un’altra cosa. Come se, per giunta, il riconoscimento dell’impronta data dalla sintesi fosse un automatismo, un processo perseguibile con assoluta certezza. Fermo restando che negli anni, e non solo nella birra, le incrollabili convinzioni in campo aromatico degli esperti (o sedicenti tali) sono state talvolta messe alla berlina da prove alla cieca, sarebbe d’obbligo citare un noto birraio italiano, vincitore di premi, perfezionista e maniaco dell’analisi al microscopio, ma soprattutto con un passato da tecnologo alimentare, che una volta, chiacchierando dell’argomento, mi diede una risposta tanto enigmatica quanto saggia: ci sono aromi e aromi.

Dietro suddette parole all’apparenza sibilline, si nascondono due grandi verità: primo, che un estratto ben realizzato può ingannare il miglior assaggiatore; secondo, che mediamente c’è tanta confusione sull’argomento. Anzitutto andrebbe fatto un distinguo: separare il natural flavor dal suo corrispettivo artificial. Un aroma naturale dovrebbe allora consistere, di solito, in una serie di composti esistenti in natura che, combinati, producono l’esperienza sensoriale che ci aspetteremmo da quel determinato aroma. Ad esempio, andando molto a braccio nel seguire il testo Dictionary of Flavors, la nocciola può essere ricreata con pirazina (elemento portante nella composizione del frutto stesso), cui aggiungere altri composti relativi a cioccolato, vaniglia, affinché tutto si arrotondi nella giusta direzione. Al contrario, un aroma artificiale è ottenuto da composti chimici che non esistono in natura. È qui allora che entrano in gioco le famose “fialette”, è qui che si scatena il lancio di strali contro i birrifici (per lo più il bersaglio sono quelli americani, in particolare alcuni nomi della Florida come J. Wakefield, Angry Chair, Cycle, Hidden Springs e – last but not least – 3 Sons) che ne farebbero un abuso incontrollato. Questo, unitamente al fatto che vi è sempre stata la forte convinzione che le leggi americane presentino maglie piuttosto larghe, circa le dichiarazioni che le aziende sono tenute a precisare sulle etichette delle loro birre. Andiamo allora a constatare se è vero, o se siamo dinnanzi all’ennesimo falso mito da sbugiardare. In effetti: sebbene la FDA (Food and Drug Administration), l’ente governativo che regolamenta ogni segmento del campo alimentare negli Stati Uniti, fornisca un disciplinare molto chiaro e preciso riguardo alla dichiarazione di qualsiasi tipologia di aromi, spezie, coloranti e conservanti, la birra, o gli alcolici in generale (tranne alcune curiose categorie), ne resta esclusa perché sotto la giurisdizione della molto più permissiva TTB (Alcohol and Tobacco Tax and Trade Bureau). Motivo? Bisogna fare un salto temporale agli anni ’30 quando, a proibizionismo abrogato, il governo aveva la necessità di regolamentare la tassazione delle bevande alcoliche per reintrodurle sul mercato con il dovuto controllo: l’organo di allora, nel corso dei decenni, si è via via trasformato nella odierna TTB. E nonostante l’istituzione successiva della FDA, rigorosamente al passo coi tempi nell’aggiornare i suoi disciplinari, le amministrazioni americane hanno sempre preferito non sovrapporre i due organi per non creare un doppio canale di burocrazia in cui affossare le aziende: risultato, la lista degli ingredienti in una birra è pertanto opzionale, non obbligatoria e demandata in tutto e per tutto alla discrezione del produttore. Anche se esistono iniziative mirate al miglioramento della consapevolezza del consumatore, affinché egli sappia cosa ci sia esattamente in una bottiglia, queste sono ben lungi dal sembrare anche solo vagamente proponibili; non solo ci si chiede se il bevitore medio fosse davvero interessato a conoscere la composizione di ciò che beve, ma chissà quanti birrifici sarebbero contenti di dover rinunciare alla vena artistica che in genere caratterizza un’etichetta e ne fa un veicolo commerciale di grande potenza, per dedicare lo spazio materiale di essa a una fredda, lunga lista di ingredienti e valori nutrizionali. In tale situazione è chiaro che vige la legge del facciamo un po’ come cazzo ci pare, e viene facile applicare il criterio a pensar male ci si azzecca sempre, ovvero che la pratica delle fialette sia una diffusissima prassi al di là dell’oceano; resta a ogni modo un’inferenza speculativa, a tratti basata sul sentito dire, dove chiunque potrebbe dire la sua citando le proprie fonti e mettendo la mano sul fuoco per l’attendibilità delle stesse, in un turbinio di pareri che si contraddicono a vicenda. E che non portano a nulla.

La questione è: abbiamo davvero bisogno di un dibattito simile? E a che pro? Tirando le somme, senza scadere in frasi salomoniche, banali ed effimere, senza dubbio sì: non è sbagliato volersi cimentare con i sensi di cui siamo dotati, e riuscire a capire quali sono le origini di un comparto aromatico, capire dove finisce l’ingrediente fisico e quando comincia la sintesi dello stesso. Un esercito di degustatori più o meno titolati potrebbe sostenere che il discrimine sta nella potenza di impatto che sprigiona una birra appena stappata, ma è una spiegazione alquanto grossolana e imprecisa: il pensiero va subito a certe stout di Side Project, birrificio di St. Louis di caratura mondiale tra i geeks; si prenda in particolare la Coconut Vibes, il cui secondo batch è stato messo in commercio circa un anno fa. La descrizione: Imperial Stout with coconut. Blend #2 has 4 times the coconut as Blend #1. A meno che non si voglia tacciare un’azienda di dichiarare il falso (ben diverso dall’omettere informazioni non obbligatorie), ci troviamo di fronte a una IRS dove l’aggiunta è fisica e non sottoforma di fialetta. Eppure, se dovessimo giudicarla solo dalla carica aggressiva di cocco, tra le più intense mai concepite, forse molti prenderebbero fischi per fiaschi. Bevendola, inoltre, si scoprirebbe che la densità dell’aggiunta è talmente forte da risultare stucchevole, come se avessero blendato la birra direttamente con il latte presente all’interno della noce, e anche qui l’espertone potrebbe andare, alla cieca, in serie difficoltà, bollandola come artificio da laboratorio per palati non fini.

Insomma questa dannata chimica, come la riconosciamo? Dove sta? Un’altra scuola di pensiero, forse già più ragionevole, ci suggerisce che quando la birra è dotata di quelle sfumature dozzinali, sfacciate, da merendina discount a un euro per confezione da sei, la fialetta è appena dietro l’angolo. E pure lì, però, non abbiamo un criterio esatto. Che potrebbe, casomai, essere rafforzato dall’aprire esemplari dello stesso batch in diversi momenti nel tempo (fresca, 6 mesi, un anno, ecc.) e verificare se qualcosa effettivamente cambia a livello di persistenza. A chiunque verrebbero subito in mente, come esempio principe, le Omnipollo, pastry IRS che ricalcano prodotti di pasticceria come cheesecake, ice-cream e s’mores, ma, tralasciando il controverso marchio svedese (le cui bottiglie spesso, a onor del vero, riportano la dicitura “with natural flavors added”), è avvilente leggere di continuo gli appellativi fialetta, fintissima, senza contare l’insopportabile pupazza, e così via, alla benché minima avvisaglia di stranezza negli ingredienti secondo i personali canoni del censore di turno, come marshmallow, graham cracker, caramello salato, banana. Purtroppo, a nessuno viene l’idea che certi sapori e aromi possano essere, grazie a quantità superlative dell’aggiunta o per natura intrinseca, sovrastanti e predominanti anche senza l’intervento della fialetta. Per cui, va bene cercare di essere consapevoli, ma dovremmo provare almeno a conservare la capacità di mettersi in discussione, di dubitare delle certezze, di ricordare le esperienze di quanto si è bevuto in precedenza, assemblarle, raffrontarle. Ragionare, insomma, con la propria testa.

Un commento

  1. Io non farei neppure distinzione tra composti presenti in natura e composti sintetizzati ex novo dell’uomo. Quello che conta sono le caratteristiche organolettiche, tossicologiche, chimiche in generale della molecola usata come aroma e ovviamente l’intento con cui viene usata.

    Io di certo vorrei molte più informazioni dai birrai, anche se mi rendo conto che per loro questo comporterebbe un costo e un lavoro spesso insostenibili. Vorrei più informazioni perché la qualità del prodotto si vede anche dai dati quantitativi, che posso anche non riconoscere al palato, ma hanno conseguenze nutrizionali. Riguardo al problema della lenzuolata di dati che coprirebbe la lattina, credo sia facilmente risolvibile includendo un codice scansionabile.