Perché la nuova guida agli stili EBCU non ci ha convinto
Nonostante il nostro approccio alla bevuta sia lontano anni luce da chi fa delle guide agli stili il proprio credo, l’uscita di un nuovo modello teso a mettere ordine nel caotico mondo della birra merita comunque attenzione. Del resto se è vero che gli stili non devono servire al consumatore per valutare una birra (quando abbiamo una pinta davanti non siamo ad un concorso!), la definizione di etichette tipologiche rimane un strumento sempre utile per comunicare in maniera rapida ed efficace. Siamo andati così a leggere in maniera approfondita la guida di recente uscita realizzata dalla EBCU, ovvero la European Beer Consumers Union, organismo di cui fanno parte anche le associazioni italiane Unionbirrai (dal 2005) e MoBi (dal 2015), realizzata grazie al lavoro dal giornalista-saggista Tim Webb.
Le linee guida in questione nascono con l’intento condivisibile di educare e formare il consumatore di birra circa l’elevato numero di stili presenti in Europa. Il nome lo conferma: The Beer Styles of Europe and beyond, dove quel “beyond” (oltre) può essere sostituito con “Stati Uniti d’America”, essendo praticamente l’unico Paese non europeo di cui si annoverano stili. Una visione dunque facente perno attorno alle tradizioni del Vecchio Continente, diversa dall’americanocentrica guida Bjcp, e questo, è inutile dirlo, ci piace.
Anche la definizione di stile viene sintetizzata in maniera alternativa, se vogliamo romantica, ma non priva di fondamento: Uno stile di birra è un accordo informale tra un birraio e il suo cliente, espresso attraverso un nome su un’etichetta, con il quale il primo dà al secondo un’idea approssimativa di ciò che sta per acquistare.
Come detto l’opera, che va ad aggiungersi, sullo scaffale di settore, agli omologhi inventari internazionali di fattura statunitense (del Bjcp e della Brewers Association) si pone tra i propri obiettivi quello di focalizzare lo stato dell’arte degli stili birrari. Per fare questo registra da un lato la riscoperta e la rinascita di numerose specialità regionali estinte o in via d’estinzione (tra le quali alcune vere e proprie archeobirre), dall’altro i prodotti di una dinamica evolutiva che, sospinta dal moto d’interesse e di curiosità alimentato dal movimento artigianale globale, ha determinato la comparsa sulla scena di denominazioni originali e inedite, legate all’estro delle singole comunità birrarie nazionali.
Ma entriamo nel dettaglio. Fin dall’inizio si capisce la netta volontà di creare una linea di demarcazione tra birre industriali e artigianali. E questo è più che comprensibile visto che l’EBCU è una organizzazione nata proprio per proteggere il comparto craft promuovendone la miglior qualità e varietà rispetto al prodotto industriale. La guida dunque parte distinguendo le birre lager in “industriali” e “autentiche” (ovvero artigianali) anche se fallisce, la dove tutti falliscono, ovvero nel definire oggettivamente la reale differenza tra artigianale e industriale puntando su aspetti produttivi. Nell’incipt alla categoria “lager autentiche” si legge: le migliori lager europee sono prodotte con 100% di malto d’orzo; realizzate mediante decozione; luppolate con varietà tedesche come Saaz, Hallertau, Spalt o Tettnang; fermentate da un ceppo di lievito lager a non più di 15° C fino a due settimane e poi maturate tra 0-4° C per un massimo di tre mesi. Una definizione discutibile, fin troppo stringente sul lato ricetta, che non puntando però sulle differenze qualitative di fatto rende incomprensibile il messaggio alla maggior parte dei bevitori.
Originale, anche se crea poi confusione nella veduta d’insieme, la volontà di classificare alcune Ale suddividendole per facilità di bevuta e potenza alcolica: si parla di session beers (dai 4 ai 5,5 gradi alcolici) ovvero birre da bevuta frenetica, da ordinare in più pinte; sampling beers, birre da assaggio che hanno gradazione alcolica compresa tra i 5,5 ai 9 gradi alcolici; sipping beers (letteralmente birre da sorseggiare) che in Italia a volte sentiamo chiamare con l’espressione “birre da divano”. Sotto questa particolare differenziazione cadono gran parte degli stili inglesi, belgi, tedeschi, francesi e americani. Sono fuori invece – in maniera non troppo logica – per via dell’utilizzo di malti particolari, il nutrito filone delle Porter e Stout, inserito nella categoria “Specific Style Cluster”. All’interno di questa macro-area vengono creati sotto-stili, come si legge nella pagina introduttiva, giustificandoli per via della presenza di frumento come malto base (Wheat beers), per l’utilizzo di cereali alternativi (solo la roggenbier) o perché ad essere protagonista risulta il lievito (forse inteso come fermentazione non convenzionale) come Lambic & Wild Beer o l’acidità (Aged & Sour Beers). Una categoria dalla classificazione strampalata dove troviamo di tutto e di più, simile ad un “varie ed eventuali”. Così dopo un criterio di classificazione fondato sulla natura industriale o artigianale, dopo un secondo che punta sul tenore alcolico e la beva, ecco spuntare la categoria delle “diversamente birre”. Del resto non si capisce bene il perché non vengano fatte rientrare Porter, Stout e Wheat beer (che contemplano weizen, wit, wheat wine) nelle Ale, così come non possa essere creata una categoria a parte per le birre a fermentazione mista (Lambic & Co) e invecchiate in botte.
Suona strano soprattutto a noi italiani che distinguiamo tra i termini Saison e Farmhouse ale anche il posizionamento delle Saison sotto il cappello delle “Mixed fermentation styles” assieme a Lambic, birre invecchiate in botte e altre birre acide. La categoria saison abbraccia birre con caratteristiche diverse: possono esistere versioni acide, caratterizzate da un cereale spiccato o accogliere addirittura frutta o fiori, ma inserirle assieme a birre acide o passate in botte appare estremo e riduttivo. Nel sottogruppo Saison si individuano tre stili: Saison Légère, Saison Belge e Saison Craft. Con quest’ultima etichetta si intendono in pratica le interpretazione che prevedono fermentazioni miste. Ma identificare l’appellativo “craft” con le versioni sour di saison suggerisce l’idea sbagliata per cui un birrificio artigianale produce Saison soltanto in versione wild.
Vengono riportati nella categoria Regional Specialities alcune birre particolari originarie di Paesi europei come Finlandia, Italia, Polonia o rientranti in alcune specialità belghe (Grisette) o tedesche (Berliner Weisse, Gose, Lichtenhainer). Una categoria che cita birre come Kuit, Koduõlu, Gotlandsdricka, Kaimiškas, Keptinis, Heimabrygg, Kornøl and Stjørdalsøl, nomi che ai più non diranno nulla, ma che offre indubbiamente visibilità a stili dimenticati. Stiamo parlando in gran parte di birre locali e farmhouse ale dei Paesi dell’estremo nord Europa o del Baltico. Una categoria dove però l’ennesimo criterio selettivo diventa scuro nel momento in cui si legge la presenza anche delle arcinote Gose e Berliner Weisse, che trovano spazio accanto a birre di Paesi con storia birraria relativamente recente o meno conosciuta.
Tra gli stili birrari italiani troviamo la birra alle castagne e la Italian Grape Ale. Questa la descrizione riportata per le nostre birre con mosto d’uva: The style remains a work in progress, with experiments thus far including beers made with grape must, grape flowers, juice and occasionally wine itself. The background beer may be made from a variety of grains and fermented by lager yeast, ale yeast or wine yeast. La definizione appare quanto mai imprecisa e presenta espressioni come grape flowers (forse la traduzione infelice di “mosto fiore”?) e aggiunte come quella diretta di vino che tra l’altro è pratica vietata in Italia. Infine la birra si chiama Italian Grape Ale proprio perché è una ALE, e quindi non viene fermentata con lievito lager.
Altra nota dolente è la parte dedicata alla descrizione degli stili e dei sotto-stili: la sintetica descrizione si esaurisce in due, tre righe al massimo, a volte anche meno. Anche noi siamo convinti che una guida agli stili dedicata ai consumatori, soprattutto se poco informati sul tema birra, non debba contenere tantissime informazioni per evitare di confondere, ma se pur essenziale e fruibile la scheda dello stile deve comunque informare. Questo non accade però per via di descrizioni sommarie sul profilo gusto-olfattivo e vaghe nozioni sul background storico dello stile. Impossibile non fare confronti con la guida al BJCP, che, ricordiamolo, nasce per le competizioni birrarie e per i birrai, siano questi homebrewer o meno. La guida al BJCP non è affatto esente da difetti ma perlomeno appare esaustiva, elargisce parametri numerici di stile, un’accurata descrizione del profilo organolettico dello stile, delle nozioni storiche, una comparazione con stili simili e anche una sezione dedicata alle birre capostipite.
Buone le intenzioni insomma, ma il risultato non appare certo all’altezza delle aspettative.