I coloni diretti in America, come tutti i migranti, portarono con sé il proprio retaggio culturale, i costumi e i prodotti del loro Paese d’origine. È facile infatti immaginare come i cittadini provenienti dall’Inghilterra e dall’Olanda prima, dalla Germania, dall’Irlanda e dall’Est Europa poi (i cui flussi migratori hanno di fatto creato il meltin pot con cui spesso si descrive la società americana), continuassero a chiedere di consumare la propria bevanda preferita: la birra. La nascita della storia brassicola americana va ricercata intorno alle prime decadi del 1600 nelle colonie olandesi che si insediarono vicino al fiume Hudson. Nel 1612 a Manhattan, in quella che sarebbe diventata New Amsterdam e, dal 1665, New York, sorse il primo birrificio di cui si ha traccia ufficiale grazie agli olandesi Adrian Block e Hans Christiansen. Per quanto riguarda il versante inglese il primo birrificio conosciuto è quello che William Frampton fondò nel 1685 a Philadelphia. Da quel momento in poi vi fu un notevole proliferare di piccoli birrifici locali, soprattutto produttori di ale inglesi, nella stessa Philadelphia, a Baltimora, ma soprattutto a New York. La Rivoluzione americana (1776- 1783) rallentò in maniera notevole l’espansione dei birrifici, sia per fattori contingenti, sia per un forzato calo dei consumi. Una frenata che sarà dimenticata nel periodo post bellico animato nuovamente dal proliferare di birrifici soprattutto nelle grandi città dell’Est. dd
La migrazione tedesca e l’arrivo delle lager
Il diciannovesimo secolo fu caratterizzato dalle sempre più consistenti ondate migratorie di irlandesi (in fuga dalla carestia), cechi e tedeschi (in fuga a causa della situazione politica). Se i primi si adattarono bene alla produzione di stampo inglese che trovarono al loro arrivo, i secondi cominciarono a cercare e a produrre le birre che bevevano nei loro Paesi. Cominciò così quello che sarebbe diventato il fenomeno dominante del mercato americano e mondiale: le lager. Sulla spinta degli immigrati tedeschi e cechi, le basse fermentazioni fecero la loro comparsa nel nuovo continente nella metà dell’800, in un momento che vedeva le grandi città dell’Est come epicentro brassicolo del Paese. Quello che non si poteva immaginare era che il futuro della birra americana non fosse da ricercare nei cento e più birrifici e nella grande varietà produttiva che caratterizzava New York alla fine dell’800, ma piuttosto nel Midwest, presso i nuovi produttori di lager, capaci di utilizzare le nuove tecnologie, quali la ferrovia, la refrigerazione e la pastorizzazione per creare un vero e proprio mercato di massa, non più basato sul consumo locale ma sulla vendita di bottiglie prima e lattine poi, anche a grande distanza.
Questa è l’America degli immigrati tedeschi Frederick Pabst, Joseph Schlitz e Frederick Miller che resero Milwaukee la capitale della produzione brassicola americana di fine 800, ma anche di Adolphous Busch, cofondatore della Anheuser- Busch a Saint Louis, il primo ad intuire le grandi potenzialità delle nuove tecnologie (fu il primo a pastorizzare le birre e il primo ad usare vagoni refrigerati tramite frigo – prima si usava direttamente il ghiaccio – per il trasporto della birra). Queste persone riuscirono a creare un mercato ampio, rivoluzionando il concetto di produzione, investendo nella ricerca tecnica, realizzando impianti all’avanguardia e assumendo personale qualificato, spesso direttamente dall’Europa.
Forse fu il limitato campo d’azione del Midwest che spinse in questa direzione, ma di certo con questa strategia riuscirono a conquistare larghe fette di mercato fino ad allora mai battute, come nel Sud dove mancava una tradizione brassicola a causa delle temperature troppo elevate e per l’assenza di materie prime locali. Fu questa visione che permise ai nuovi produttori di lager di avere un vantaggio competitivo enorme in termini di prezzi quando tra la fine del 18esimo secolo e l’inizio del 19esimo cominciò una accanita guerra dei prezzi nel settore che finì per portare il numero dei birrifici esistenti da 4131 del 1873 a 1500 nel 1910 a fronte di un forte aumento della produzione.
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Il Proibizionismo e la nascita del mercato di massa
Purtroppo però il consolidamento non era né l’unica né tantomeno la peggiore minaccia in corso per il panorama birrario americano: nel 1920 infatti prese il via in tutto il territorio federale il famigerato Proibizionismo. Le radici di questo fenomeno sono da ricercare sin dal 1850 quando il Maine (e altri 11 dei 31 stati della federazione nei 5 anni successivi) approvò il proibizionismo sotto la spinta del “movimento della temperanza” di matrice religiosa. A questo seguirono forme più organizzate come la National Temperance Society, fondata nel 1893 con l’appoggio di grandi magnati come J.P. Morgan e J.D. Rockfeller che si lamentavano degli effetti fluente Woman’s Christian Temperance Union. Queste associazioni confluirono nella Anti-Saloon Legue guidata dall’avvocato Wayne Wheeler. Mentre il movimento proibizionista prendeva piede (l’ASL contava 200 dipendenti fissi nel 1902), il settore dei produttori di alcolici, ed in particolare quello dei produttori di birra, tardò colpevolmente a coalizzarsi per difendere i propri interessi e quando lo fece, lo fece male.
La U.S. Brewers Association, nata nel 1862 e di fatto poco operativa, diede vita nel 1913 ad una associazione che riuniva i vari operatori della filiera della birra, dai birrai stessi ai maltatori, dai proprietari di saloon ai coltivatori di luppolo. Questa associazione, chiamata National Association of Commerce and Labor, appoggiò la National German- American Alliance, una organizzazione il cui scopo era quello di preservare e diffondere la cultura tedesca negli Stati Uniti, con l’intento di salvaguardare la produzione di birra. Se questa mossa si rivelò azzeccata in un primo periodo, finì presto per rivelarsi un clamoroso errore quando nel 1917 gli USA entrarono in guerra contro la Germania. Accusata di essere in qualche modo complice del nemico da Wheeler, l’NGAA fu costretta a sciogliersi nel 1918 e con essa si persero anche le speranze di arginare la spinta proibizionista.
Con queste premesse si arrivò all’approvazione del 18esimo emendamento e della Volstead Act nel 1919, con l’inizio del proibizionismo nel 1920. Quando nel 1933, in piena Depressione, il proibizionismo fu di fatto revocato a causa dei danni causati (come l’affossamento della produttività e l’aumento del potere della criminalità organizzata), quello che si presentò ai produttori era un panorama scoraggiante: da una parte dovevano fronteggiare la Grande Depressione, che imponeva di mantenere bassi i prezzi, dall’altro dovevano confrontarsi con l’agguerritissima concorrenza dei soft drink diffusi e ben radicati in una generazione cresciuta senza poter mai assaggiare una birra. Questo spinse i produttori ad alleggerire il gusto delle proprie birre per incontrare il favore dei consumatori. Inoltre la legge prevedeva che le birre avessero un contenuto massimo di alcol del 3.2% in peso o 4% in volume.
Il risultato fu quello di spingere progressivamente la produzione verso prodotti più leggeri, meno caratterizzati e a basso costo, spesso realizzati con l’aggiunta di cereali meno pregiati dell’orzo e accorciando al massimo i tempi di produzione, che finirono inevitabilmente per favorire il consolidamento delle grandi imprese a scapito della qualità. Dai 1179 birrifici operanti prima del Proibizionismo si arrivò ai soli 89 del 1979, in mano a 50 gruppi (il numero minimo degli ultimi duecento anni), che producevano per lo più una lager insapore, pastorizzata, di bassa gradazione e senza personalità, ma pesantemente pubblicizzata, presente sia nei canali della grandissima che della piccola distribuzione.
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Il Rinascimento americano
Qualcosa però cambiò a partire dagli anni sessanta, quando qualcuno cominciò a lamentare la “mancanza di gusto”. Lentamente aprirono sempre più birrifici di piccoli dimensioni, i cui birrai erano spinti dalla passione e non solo dagli utili aziendali: piccoli birrifici locali, orientati ad un prodotto di qualità, capaci di colmare la crescente sete con birre nuove. Uno dei fattori di questa rinascita fu l’esperienza dei tanti soldati americani che, combattendo in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale o prestandovi servizio nei decenni successivi, vennero in contatto con la tradizione birraria del vecchio continente e con i suoi prodotti ancora ricchi di gusto (anche se a ben vedere il processo di “lagerizzazione” era cominciato anche in Europa, dove però la resistenza culturale dei paesi storicamente produttori è sempre stata strenua); la stessa esperienza fu condivisa anche dagli studenti che sempre più spesso nel dopoguerra si concedevano un giro “zaino in spalla” nel vecchio continente.
Probabilmente queste persone al loro ritorno cominciarono a chiedere qualcosa di diverso al mercato, qualcosa che di fatto era stato perduto. Questo contribuì alla nascita del movimento degli homebrewers, che spesso si formavano su testi inglesi che cominciavano in quel periodo a lasciare la madrepatria – è da notare come la produzione casalinga di birra sia rimasta illegale negli USA fino alla fine degli anni settanta (1978), anche se era di fatto una pratica accettata. Proprio dal mondo degli homebrewers vengono molti dei personaggi destinati a cambiare radicalmente il mondo della birra statunitense, spesso con pochi soldi ma con tante idee, sia attraverso la produzione che attraverso la cultura della birra come Charlie Papazian, ingegnere nucleare e homebrewer, che in quegli anni fu tra i fondatori della American Homebrewer Association (1978) e della Brewers Association (1979), entrambe confluite nel 2005 all’interno della Brewers Association, della quale lo stesso Papazian è oggi presidente.
Dal punto di vista produttivo i nuovi birrai cominciarono a produrre birre differenti (con l’esclusione del caso di Maytag) decisamente orientate verso nuove sensazioni. Principalmente vennero usati malti americani e canadesi, anche se non particolarmente ricchi di proprietà e luppoli americani che, al contrario erano ricchi di profumi del tutto nuovi. Queste scelte, così come quella di affidarsi a birre ad alta fermentazione, furono dettate anche da ragioni economiche, data la pochezza dei mezzi con i quali molti birrifici partirono, ma risultarono decisive nel creare un netto distacco con le birre esistenti sul mercato. A ben vedere fu il profilo aromatico dei nuovi luppoli, su tutti il Cascade, con le sue note resinose e agrumate, a segnare la grande rinascita del movimento americano.
L’inizio di tutto fu la California, dove già dalla fine degli anni sessanta cominciò a crescere l’attenzione verso i prodotti alimentari di qualità e la produzione vinicola di livello. Questa “attenzione al gusto” rese più facile l’introduzione di un concetto diverso di birra. Rappresentativi di questa fase pionieristica sono il precursore Fritz Maytag, che per primo decise di scommettere sulle birre di qualità salvando dal fallimento nel 1965 la Anchor Brewing di San Francisco e la sua Steam Beer, nonché il primo a realizzare una birra con Cascade, la Liberty Ale, entrata poi in produzione stabilmente nel 1983. Sempre in California nacque il primo micro birrificio, il New Albion, fondato nel 1976 a Sonoma (regione di grande produzione vinicola) ad opera di Jack McAuliffe, un tecnico della marina statunitense che aveva prestato a lungo servizio in Scozia ad Aberdeen. Il New Albion chiuse dopo soli 4 anni, ma gli homebrewers dipendenti che ne fuoriuscirono fondarono a loro volta la Mendocino Brewing a Hopland (omen nomen) sempre in California.
Arriviamo al 1982, a Chico in California Ken Grossman e Paul Camusi, homebrewers, fondano dal nulla e con pochi soldi Sierra Nevada Brewing Company, la cui Pale Ale diverrà probabilmente il simbolo delle nuove pale ale americane e farà conoscere il Cascade al grande pubblico. Nel 1984 Jim Koch, pubblicitario e homebrewer, a Boston dà vita insieme a due soci alla Samuel Adams (poi chiamata Samuel Adams Boston Lager) su una ricetta di suo nonno, anch’egli birraio prima del proibizionismo; attualmente Boston Brewing, sempre di Koch, che detiene il marchio Sameul Adams, è il più grande produttore craft con più di due milioni e trecentomila ettolitri annui. Tra il 1980 e il 1994 i birrifici artigianali americani passano da 8 a 537, variando da un’offerta legata agli stili classici europei, dall’alta alla bassa fermentazione, fino ad arrivare alle nuove birre americane a cui si accennava sopra, il tutto con una forte caratterizzazione del prodotto. La vera svolta operata in questoperiodo e che continua tutt’ora, risiede in una produzione di birra orientata non più soltanto dalle imprese più grandi, ma anche dal gusto dei consumatori, che muovendosi in una vasta gamma di prodotti diversi possono decidere quali saranno quelli che devono sopravvivere; dal canto loro i piccoli produttori sono liberi di sperimentare più agilmente stili nuovi per poter incontrare il gusto del consumatore o solleticarne l’interesse.
Proprio la creatività è stata un elemento distintivo per molti dei birrifici americani nati dopo il 1994, anno di inizio del boom delle craft breweries e di una sorta di “seconda fase”. La sperimentazione si è fatta più intensa, sia nella ricerca di nuovi varietali di luppoli, sia nella ricerca del confine di un particolare stile o del brassare in generale. Nascono luppoli incredibilmente carichi di alpha acidi (sostanza responsabile dell’amaro) e contemporaneamente ricchissimi di aromi anche inconsueti che vengono prontamente inseriti in birre nuove come le Double IPA o Imperial IPA, versioni “maggiorate” delle prime american pale ale. Quasi tutti gli stili vengono portati al limite e restituiti in versioni Imperial, moltiplicati nelle caratteristiche. Negli USA, si sono anche affermati produttori che ripropongono stili classici europei, oltre a chi ricerca stili “in via d’estinzione”, con la curiosa conseguenza di creare un numero maggiore di esempi di queste tipologie rare negli USA piuttosto che in madre patria (Berliner Weisse, Kolsh, Rauchbeer sono esempi di questo processo). Al movimento americano va il merito di avere costruito praticamente ex novo quello che attualmente è il panorama brassicolo più interessante a livello planetario, sia per varietà che per sperimentazione, sia come vitalità che innovazione (anche se l’Europa è in fermento, anche grazie all’esempio americano). C’è davvero da chiedersi cosa ci riserverà il futuro!
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Articolo tratto da Fermento Birra Magazine n. 7