Viaggio alla fonte della Pils
Un po’ di disappunto, ecco quello che ho provato all’inizio. Mi aspettavo qualcosa di diverso. Poi ho capito che l’errore era proprio nella mia aspettativa. Ma andiamo con ordine. Le cantine sottostanti l’impianto di produzione della Pilsner Urquell sono le stesse di quando fu fondato il birrificio più di 150 anni fa. Come allora sono fredde e tanto umide da essere avvolte in molti punti da uno strato di nebbia, l’ambiente ideale per le basse fermentazioni. Le grandi botti di legno contrastano con l’avanzatissima sala cottura dei piani superiori dove, oggi come ieri, è ottenuto il mosto tramite tripla decozione con tini scaldati direttamente sulla fiamma. È questo che colpisce. L’essere un momento prima in un modernissimo centro di produzione ed un secondo dopo in cantine centenarie, nel cuore del luogo in cui è nato lo stile Pils.
Uno di quei posti che ogni amante di birra conosce e che vale la pena visitare, per arrivare dove ha avuto origine uno degli stili che più ha modificato il modo di concepire e fare la birra. Di birre ne ho bevute e un po’ nella vita ho viaggiato, ma ero comunque curioso di potere bere qualche sorso da uno di quei barili, curioso di sentire la discendente di quella birra primigenia quando ancora non ha ricevuto l’aggressione della pastorizzazione. Arrivato al dunque quindi, con il mio bicchiere nelle mani ghiacciate davanti al vetusto e molto coreografico uomo che spilla da un rubinetto dell’immenso tino, sono pieno di aspettative.
La schiuma c’è, compatta e persistente, il colore è dorato, leggermente velato, molto bello. Il naso è freschissimo, e nonostante la birra non abbia del tutto finito la sua maturazione, le note sono quelle tipiche del Saaz, resinose con un accenno di citrico. Le stesse che si ritrovano sfregandosi ben bene il fiore di questo nobile luppolo tra le mani. Ma già mi manca qualcosa. Non c’è infatti quell’esplosione di erbaceo che mi aspettavo, quel carico di luppolo che credevo mi avrebbe avvolto il naso. Capiamoci, c’è, ma non così esplosivo. Ci sono invece note maltate evidenti, di cereale, ovviamente figlie del malto Pilsner. Tutto questo si ripete al palato. Attacco sulla mielatura dei malti con un inizio croccante, per passare, non così rapidamente come mi aspettavo, all’attacco dei luppoli (meglio dire del luppolo, dato che è solo Saaz) con le sensazioni avvertite al naso. Il finale è secco. La birra è ben strutturata, assolutamente piacevole, molto più valida di quella che si trova in bottiglia. Allora cosa mi lascia pensieroso? Come mai non godo e basta? In preda ai pensieri decido per un secondo assaggio.
Dotato di autorizzazione mi servo da solo: bella emozione spillare direttamente da un tino del genere e soprattutto in un posto del genere, mi sento quasi un bambino e, proprio come un bambino, mi verso un bel bicchiere di sola schiuma! La pressione con cui scende la birra è davvero notevole, avrei dovuto immaginarlo data la quantità contenuta nella botte. Quel vecchiettino sapeva bene il fatto suo. Prese le misure riesco a procedere con il secondo assaggio, ritrovando in sequenza quanto sentito prima. Quello che non mi persuade è la mancanza delle note di spicco di questa birra, poi comprendo. È l’equilibrio. È il punto di inizio. Mi aspettavo qualcosa di incredibile, di caratterizzato, qualcosa che sconvolgesse le mie papille gustative tanto da scordare dove ero e cosa bevevo. Nella sua città natale la Pils è una birra che presenta tutte le caratteristiche della Pils, ma senza estremismi, con grande equilibrio, direi quasi con pacatezza. Una birra che è stata nel tempo di ispirazione per molti, tanto da diventare uno stile. Io all’inizio ci son arrivato partendo dalla fine. Partendo da prodotti che a questo tipo di birra si sono ispirati, valorizzandone ora l’una ora l’altra caratteristica. Era questo che non capivo, credevo di essere alla fine ed invece ero all’inizio.
Articolo tratto da Fermento Birra Magazine n. 1