Session beer: cos’è e come produrla
Chi non ama birre di facile bevuta, rinfrescanti ma allo stesso tempo coinvolgenti, poco alcoliche ma inebrianti, da bere spensieratamente in pinte senza trovarsi stesi a terra? Ecco, abbiamo appena dato un vaga definizione di quelle che nel mondo brassicolo vengono chiamate session beer. Ma cos’è esattamente una session beer? Come produrla in casa? A quali stili fare riferimento di preciso?
Le origini
Il concetto “sessione” non si riferisce necessariamente alla birra in sé, ma all’atto di berla in un certo modo. Se vogliamo è un concetto anglosassone del bere, anche in relazione al termine anglofono che si usa per descriverlo. Vengono subito alla mente un bancone, una serie di spine a pompa, avventori che conversano in allegria un po’ alticci – non ubriachi – magari dopo un’intensa giornata di lavoro. Due o tre pinte e poi si torna a casa sulle proprie gambe, senza barcollare troppo, sorridenti ma coscienti dei propri passi. Il concetto di session viene spesso associato al mondo inglese e in effetti la cornice calza a pennello: il mondo anglosassone è da sempre la patria delle birre a basso tenore alcolico come Bitter, Mild e Porter, che nella vicina Irlanda sono poi state declinate come Irish Stout e Irish Red Ale, sempre da bere a pinte al bancone. Tuttavia, se ci fermiamo al concetto di birra “poco alcolica, rinfrescante ma interessante” la Germania e la Repubblica Ceca non sono certo da meno. Basta pensare alla Bohemian Pilsner, una birra leggera ma intensa nei sapori, prodotta con una base di ingredienti semplicissima. E cosa dire della Germania? Se escludiamo alcuni stili particolari come la famiglia delle Bock, la stragrande maggioranza delle birre tedesche può definirsi session, a partire dalle Weizen bavaresi. In Germania non usano probabilmente il termine session per descrivere questa tipologia di birre, ma l’approccio alla bevuta non è da meno. Come non definire le bevute seriali di Kölsch a Colonia un approccio session alla birra? Del resto, se non copri il calice con il sottobicchiere te ne viene servita un’altra senza soluzione di continuità. Insomma, sul concetto di birra session come mero stile poco alcolico ci sarebbe da discutere perché includerebbe tantissimi stili.
C’è anche da considerare che nel corso degli ultimi secoli il grado alcolico delle birre, in Europa, patria della maggior parte degli stili birrari, è stato altalenante. Fino a quando non si è arrivati ad avere una buona padronanza delle fermentazioni – e delle possibili contaminazioni – tutte le birre contenevano percentuali piuttosto alte di alcol per rallentare lo sviluppo di acidità e altri difetti dovuti alle contaminazioni. Venivano prodotte alcune birre poco alcoliche, spesso raccogliendo l’ultimo mosto al termine della fase di filtrazione e risciacquo dei cereali, ma non erano definibili come delle birre session. A causa del basso contenuto alcolico e del conseguente alto rischio di contaminazione venivano bevute giovani, quasi sempre non ancora completamente fermentate, quando il residuo zuccherino era ancora ben presente. Birre definibili come session solo per il basso contenuto alcolico, mentre il bilanciamento – tendente al dolciastro – le rendeva probabilmente tutt’altro che “beverine”. Questo metodo di produzione, chiamato anche parti-gyle, era praticato un po’ ovunque. Dai successivi risciacqui dei cereali a fine ammostamento si raccoglievano percentuali di zuccheri sempre minori che davano vita a birre con grado alcolico via via decrescente. In Belgio con il primo mosto venivano prodotte le Tripel, con il secondo le Dubbel e con il terzo le Single (chiamate più propriamente Patersbier o Enkel). Queste ultime, tra i rari esempi di stili session del Belgio, erano pensate per un consumo quotidiano in monastero da parte dei monaci.
La Session oggi
Veniamo ai tempi moderni e a cosa possiamo intendere oggi come session beer. Un buon punto di partenza sono i database stilistici. Partiamo dal BJCP, catalogo degli stili tendenzialmente americano-centrico, dove l’aggettivo session viene associato – sorpresa! – unicamente alle IPA. In particolare, vengono citate le “session IPA” tra i sotto-stili ammessi nella categoria 21.B, quella delle Specialty IPA. Tutte le altre birre, stando al BJCP, si possono inquadrare nei relativi stili di riferimento: le Pilsner nelle Pilsner, le “session” Saison nelle Saison (Table Saison in questo caso), le Bitter nelle Bitter e così via. La Brewers Association, nella sua guida agli stili sempre di stampo americano, segue un approccio simile ma affianca alle Session IPA anche una macro-categoria session dedicata alle birre di stampo belga. Nelle descrizioni di dettaglio vengono però espressi due concetti a mio avviso molto importanti per definire una session beer, almeno nell’ottica di valutarla come tale in un concorso: deve avere – ovviamente – un modesto grado alcolico (che per gli americani vede il massimo a 5 % ABV) ma, soprattutto, deve essere ben bilanciamento per scendere giù facile. Infine, tornando in Europa, troviamo la nuova guida agli stili della European Beer Consumers Union (EBCU) che propone una classificazione di tutti gli stili birrai secondo tre tenori alcolici: session (fino a 5% ABV), sampling (da 5.5% a 9% ABV) e sipping (oltre). Secondo questa classificazione, la macro-categoria stilistica delle Session Ale (quindi, non è chiaro perché, solo alte fermentazioni) racchiude un po’ di tutto: Bitter, Mild, Porter e Stout inglesi, fino a delle generiche Pale Ale belghe a bassa gradazione, ma anche Weißbier tedesche, Altbier e Kölsch. Classificazione un po’ didascalica che non aiuta molto a inquadrare una session beer moderna.
Difficile quindi dare una definizione univoca di session beer. Probabile che siano stati davvero gli americani ad associare formalmente l’aggettivo session a uno stile birrario esistente, come è accaduto per le Session IPA. Uno degli esempi classici è la All Day IPA del birrificio americano Founders, citato spesso come esemplare iconico dello stile. Perché chiamarla session IPA e non semplicemente American Pale Ale? L’idea è quella di partire da uno stile che in genere non è session per renderlo bevibile con facilità senza snaturarne l’essenza. Le Session IPA non sono “semplici” American Pale Ale perché il bilanciamento complessivo rimane quello delle IPA: tanto luppolo al naso, amaro deciso e profondo, contenuto alcolico minore. È un approccio diverso da quello inglese, dove gli stili “session” si sono evoluti nel tempo fino ad arrivare a una loro identità, tra le cui caratteristiche troviamo un contenuto alcolico modesto. Non a caso le Bitter, ma anche le Scottish Ale, vengono prodotte con diverse gradazioni alcoliche riflettendo un po’ le evoluzioni storiche dello stile. Se le Ordinary Bitter possono infatti definirsi “sessionabili”, le Extra Special Bitter (ESB) non lo sono. Con un volo pindarico un po’ azzardato che rende l’idea dell’approccio alla derivazione di uno stile session da qualcosa che esiste già, potremmo definire le Ordinary Bitter come Session ESB.
Come produrla
Fatta questa ampia premessa, come possiamo ottimizzare la produzione di una session beer in casa per prepararci a questa calda estate? Sarebbe impossibile dare dei consigli generalizzati per produrre qualsiasi session beer intesa come birra a bassa gradazione alcolica perché ci troveremmo di fronte a stili completamente diversi tra loro. Per produrre una Pilsner o una Patersbier o ancora una Bitter inglese si utilizzano approcci e ingredienti piuttosto diversi. Per brassare stili ben definiti è quindi bene rifarsi alle linee guida degli stili stessi che vanno oltre il concetto di session beer. Chiaramente si tratta di birre ideali per l’estate, a meno delle lager che in termini produttivi richiedono tanta pazienza e un buon frigorifero, con il rischio che siano pronte quando l’estate è già finita.
Più interessante è invece, a mio avviso, il concetto di session applicato a uno stile esistente. Come la session IPA, che parte da uno stile con un contenuto di alcol piuttosto importante per poi portarlo a un livello più basso senza snaturare il bilanciamento complessivo dello stile. Questa è una vera sfida per il birraio, che deve togliere elementi alla birra senza perdere il focus dall’equilibrio complessivo. L’alcol infatti è di per sé un elemento che contribuisce sensibilmente all’esperienza gustativa. Inoltre, spesso – ma non sempre – le birre più alcoliche vengono prodotte con una quantità di cereali maggiore per unità di volume. I cereali, oltre agli zuccheri, che vengono trasformati dal lievito in alcol, rilasciano moltissimi composti che possono contribuire al colore, al corpo e in generale alle sensazioni tattili, olfattive e gustative della birra. Tornando all’esempio delle session IPA, non è sufficiente ridurre la quantità di cereali lasciando inalterato il resto per produrre una birra equilibrata. Anzi, probabilmente non lo sarà affatto se procediamo in questo modo.
Quando scaliamo una ricetta verso il basso, riducendo il grado alcolico, bisogna anzitutto ricalibrare l’equilibrio complessivo della birra. Il corpo infatti si snellisce sia per la riduzione dell’alcol stesso, sia per la minore concentrazione di polifenoli, proteine e altri composti derivanti dal malto. Per evitare che la bevuta sconfini in una esperienza poco esaltante con una complessiva sensazione “watery” e un taglio amaro eccessivo, potrebbe essere utile aggiungere dei cereali di supporto come avena o grano che aumentano la percezione del corpo grazie ad elementi quali beta-glucani o proteine. Si possono utilizzare anche altri cereali come la segale, ma con estrema attenzione perché l’apporto aromatico potrebbe essere significativo e alterare il profilo organolettico della birra. Anche con grano e avena è bene non esagerare: percentuali intorno al 15% possono aiutare la bevuta senza snaturarla. Ricordiamoci che il corpo viene sostenuto anche dai polifenoli, che arrivano dal malto ma anche dal luppolo. Se lo stile lo consente, un’aggiunta di luppolo a fine bollitura, o meglio ancora, un leggero dry-hopping, possono aiutare a sostenere il corpo. Aggiunte del genere sono ovviamente immediate e consigliate in una session IPA, ma possibili, con le dovute attenzioni e senza esagerare, anche in birre belghe session o birre scure session, dove ad esempio luppoli come Fuggle (con le sue venature di tabacco) o il Bramling Cross (con la sua frutta rossa) possono arricchire l’esperienza gustativa. Consiglio forse scontato ma importante: evitare di usare zuccheri semplici in ricetta. Non farebbero altro che ridurre ulteriormente il corpo con risultati raramente soddisfacenti. Molti fanno riferimento alle Mild di una volta che venivano prodotte con l’aggiunta di melasse varie e zuccheri semplici, ma quello era un approccio molto probabilmente stimolato dal contenimento dei costi delle materie prime, non dalla ricerca di un buon equilibrio nel prodotto finito. Sempre restando sul corpo, una spinta sui cloruri disciolti nell’acqua aiuta sensibilmente a dare un senso di pienezza.
Un secondo elemento da considerare è il bilanciamento dolce/amaro. Le unità di amaro non possono ovviamente rimanere le stesse dello stile di partenza, perché riducendo l’alcol riduciamo la densità iniziale del mosto. Questo abbassa a sua volta il residuo zuccherino finale della birra (misurato numericamente come Final Gravity, FG), rendendo necessaria una riduzione delle unità di amaro per evitare di portare la birra fuori bilanciamento. Spesso si usa il rapporto BU/OG (unità di amaro vs densità iniziale) per valutare il bilanciamento complessivo, ma in casi come questo è bene considerare anche la riduzione della densità finale (FG) che potrebbe rendere necessaria una parallela riduzione ulteriore delle unità di amaro e quindi un BU/OG leggermente più basso rispetto a quello ideale per la stessa birra prodotta con un grado alcolico più alto. Per sostenere la FG si può praticare un ammostamento nella parte molto alta del range delle amilasi, intorno ai 72°C, per favorire la produzione di destrine non fermentabili. È chiaro che a questo punto le unità di amaro andranno dimensionate di conseguenza. Per una calibrazione più puntuale si possono aggiungere zuccheri non fermentabili a fermentazione conclusa, come lattosio o maltodestrine, nel caso in cui ci si renda conto troppo tardi di non aver scongiurato l’effetto watery.
Per la scelta del lievito è bene orientarsi tendenzialmente su lieviti meno attenuanti, sempre per mantenere un filo di corpo. Tuttavia gli zuccheri residui non sono l’unico elemento che contribuisce al copro della birra. Spesso i lieviti saison, anche se molto attenuanti, rilasciano abbondanti quantità di glicerolo che producono una sensazione di pienezza in bocca oltre che leggera dolcezza. In genere, quando si ha intenzione di produrre birre poco alcoliche, è meglio scegliere lieviti che apportano una maggiore complessità alla bevuta, come i lieviti liquidi inglesi, mediamente più caratterizzanti delle corrispettive versioni in formato secco, senza per questo essere ingombranti.
Ma una buona ricetta non è sufficiente per produrre una birra dagli equilibri così delicati. Mai come in questo caso il processo di produzione deve essere attento, le materie prime fresche e ben tenute, la fermentazione gestita al meglio. La cura di tutti i dettagli produttivi è parte essenziale nel processo di produzione di una session beer. Il malto deve esprimersi al meglio in tutte le sue più delicate sfumature, così come il luppolo e le venature organolettiche del lievito. Come in cucina, una pasta al pomodoro senza una buona pasta e un buon pomodoro e qualche foglia di basilico fresco non riesce, c’è poco da fare.