Homebrewing

Fare il Lambic in casa: la Kriek

Framboise bicchiereLe lambic n’est pas une bière, c’est du Lambic!
(Kuaska)

Spesso il Lambic attira per le sue caratteristiche sia produttive che qualitative, l’attenzione e le curiosità  di molti appassionati e sono sempre più gli homebrewers che provano a realizzare dei Plambic (Pseudo Lambic). Tra questi anche io ho voluto intraprendere un viaggio sperimentale nel mondo dell’acido!  Ebbene sì, a forza di assaggi di lambic, di letture di siti internet, di post nei vari forum, a settembre del 2006 ero pronto per partire per la prima cotta destinata a diventare cibo per lieviti selvaggi, avendo trovato la ricetta da realizzare, gli ingredienti e tutto l’occorrente, ma soprattutto il luogo dove far raffreddare ed infettare il mosto.

La vera decisione di provarci mi è venuta fuori girando per le cantine e la colonica di mio zio in provincia di Siena, avevo tutto l’occorrente o almeno mi sembrava, avevo delle vasche dove viene messa l’uva prima di essere messa ad appassire per fare il vin santo e le potevo utilizzare per raffreddare il mosto, avevo i caratelli usati del vinsanto che potevano sostituire i tonneau da brandy o cherry del lambic.  Dovevo mettermi soltanto all’opera.

Decisi per la seguente ricetta  (gli ingredienti riportati sono per 23 litri ):
Malto Pilsener 3000 gr.
Grano rosso invernale non maltato 2600 gr.
luppolo selvatico vecchio di un anno  150 gr. (60 min.)

La scelta dei malti è stata semplice. Il pilsner rispecchia la base che viene usata ancora oggi, malto molto chiaro e molto enzimatico, il frumento non maltato tipico della produzione del lambic (la percentuale minima di frumento deve essere del 30%).

Per quanto riguarda il luppolo ne avevo raccolto un bel po’ da una pianta selvatica che cresce vicino casa mia, lo tenevo in un contenitore per bellezza, e dopo un anno ecco che faceva al caso mio, infatti aveva perso completamente l’aroma, ed essendo l’unico luppolo invecchiato che avevo, decisi di usarlo.

Per la macinatura ho rispettato la tradizione che vuole una macinatura diversa tra per il frumento e per il malto, il malto d’orzo infatti deve essere macinato in modo da mantenere intatte le scorze (utili per la fase di filtrazione) il frumento invece deve essere macinato piuttosto fine, in modo da rendere l’amido accessibile all’acqua per la gelatinizzazione. Per quanto riguarda l’acqua avevo letto che non è molto importante nella produzione del lambic, anche se guardando le caratteristiche dell’acqua di Bruxelles ho visto che è molto dura, quindi mi sono orientato per un acqua di durezza media.

Ho cominciato la cotta con 16,5 litri di acqua ed ho ammostato a 35°, poi ho cominciato a salire verso i 40/42° e ho fatto una sosta di 30min. Dopo di che ho portato la temperatura sui 50/52° dove ho effettuato un altra sosta di 40min (protein rest). Poi ho effettuato altre due soste una a 60/62° e l’altra a 70/72° la prima per 30min, la seconda per 50min.
Come si può vedere ho lavorato come per una normale birra (lo stesso procedimento che uso per le witte), ma per lo sparging ho seguito la tecnica tradizionale delle brasserie, infatti ho utilizzato acqua (22litri) alla temperatura di 85-95°C, più elevata di quella che si usa per le altre birre, questo perché una temperatura di risciacquo così alta favorisce l’ulteriore solubilizzazione dell’amido e delle destrine rimaste nelle trebbie e comporta una estrazione di tannini (dalle scorze del malto). Dopo la filtrazione quindi ho effettuato una bollitura di 120min. E a 60min dal termine ho messo in infusione i luppoli.

A questo punto veniva il bello dell’esperimento: il raffreddamento del mosto nella vasca. Nella cantina, in quel momento, c’era il vino in fermentazione, quindi, avevo la certezza che nell’aria di lieviti ce ne fossero in quantità. Inoltre il freddo dei giorni precedenti (la cotta è stata fatta intorno alla fine di novembre in quanto volevo che la temperatura scendesse per eliminare gran parte dei lieviti e altri microorganismi che ci sono nell’aria, un po’ come fanno nel Pajottenland) aveva selezionato per me i lieviti buoni, o meglio lo speravo! Messo il mosto nella vasca (l’altezza del mosto era di circa 5/6 centimetri), precedentemente sciacquata semplicemente con acqua, l’ho lasciato al buio e speranzoso di ritrovarlo al mattino già bello infetto! Come potete immaginare ogni mezzora scendevo a vedere, un po’ come quando si fa la prima birra che si osserva il fermentatore aspettando il primo gorgoglio. Al mattino (dopo circa 13 ore dal passaggio nella vasca) quando sono sceso lo scenario era proprio quello che mi aspettavo, una bella vasca piena di schiuma e già più compatta e alta di quanto credevo (circa due centimetri), ho misurato la temperatura che era intorno ai 17° (naturalmente senza sterilizzare il termometro) ed ho deciso di travasare il tutto nel caratello. Per farlo ho usato una pompa della tellarini, che oltre che travasare ha avuto anche il compito di miscelare e rendere più omogeneo il mosto, distribuendo i microrganismi in tutto il volume. Il caratello che ho utilizzato era da 30 litri in modo che all’interno restasse un minimo di spazio. Questo perché temevo che la pressione, che si poteva sviluppare all’interno, potesse rompere le doghe e poi avevo bisogno di spazio per mettere le amarene nel caso in cui decidessi di creare una kriek (come poi ho fatto).

La domenica sera sono ripartito per Firenze lasciando sola (anche se con la mente ero sempre li) anche se ogni mattina e sera avevo mia zia che mi teneva informato via telefono (anche delle facce di mio zio che si ritrovava come diceva lui un caratello che buttava schiuma come un cane rabbioso).
Il venerdì sera, tornato alla fattoria, trovo che la schiuma sta diventando (come avevo letto in alcuni articoli) marrone e dura, una sorta di tappo naturale. Dopo altre due settimane ho deciso di rimuovere questo tappo naturale (che avevo comunque coperto appoggiandovi sopra un contenitore che lo proteggesse dalle mosche), e sostituirlo con un tappo apposito, che avevo precedentemente forato e provvisto di guarnizione e gorgogliatore, perché la paura di veder scoppiare il mio caratello rimaneva troppa.

amareneDopo poco più di sei mesi avendo deciso di aromatizzarla con le amarene (sempre prodotte nel podere). Ho raccolto circa 7 kg e mezzo di amarene, le ho lasciate due giorni al sole in caraffe di vetro per farle macerare un po’, e poi con molta curiosità ho stappato il caratello ed ho sentito un odore che sinceramente mi ha preoccupato. Non vi nego che dentro di me ho pensato ok è da buttare, ma sempre speranzoso con l’aiuto di una cannula (questa sterilizzata!) ho prelevato un po’ di liquido, nel bicchiere l’odore era meglio. Ho pensato che quello che avevo sentito all’apertura era il risultato delle fermentazioni di mesi, quindi con coraggio (ma quale coraggio non vedevo l’ora) son passato all’assaggio (niente esame visivo). Mio fratello, guardandomi aveva già capito il responso prima che parlassi, infatti il mio sorriso soddisfatto la diceva lunga!

Dopo un altro paio di assaggi avevo però un problema da risolvere: il livello del liquido nel caratello era sceso più del previsto ed era andato a sommarsi allo spazio che già avevo lasciato vuoto, risultando eccessivo. Tutto era dovuto alla perdita di acqua ed etanolo che si ha durante la fermentazione e la maturazione per via della struttura porosa del legno. Nelle brasserie per prevenire l’ossidazione ed il possibile sviluppo di batteri acetici nelle botti viene effettuato il rabbocco con lambic della stessa cotta preso da un altro fusto, ma nel mio caso questo non era possibile allora per ovviare a questo problema ho inserito le amarene e il liquido che avevano prodotto nei due giorni e per lo spazio che rimaneva vuoto ho dovuto ripiegare su qualche bottiglia di witte che avevo fatto (ho scelto questa perché comunque ha componenti simili).

Come previsto il giorno dopo alla bocca del caratello togliendo il tappo con il gorgogliatore ( che già gorgogliava) si vedeva una bella schiuma, stavolta però di colore rosso. Da quel giorno non l’ho più toccato, o meglio una volta si dopo un paio di mesi infatti ho prelevato una parte di kriek e l’ho messa in due bottiglie a carbonare per portarle a Piozzo. Una volta arrivato, incoraggiato dai commenti positivi degli amici, decido di farla assaggiare a Kuaska, che il caso voleva impegnato proprio in quel momento in una degustazione straordinaria in piazza proprio di lambic! Un po’ dubbioso (e ci credo bene dopo che al concorso lo avevo quasi avvelenato) il nostro Kuaska assaggia la mia kriek e con mia grande soddisfazione la elogia nonostante sia molto giovane. Dentro di me in quel momento avevo la certezza che il mio esperimento era riuscito!
Tornato a Firenze con questa grande soddisfazione ho deciso che al concorso di Gragnano avrei iscritto proprio la mia kriek, anzi quella che io chiamo la mia Tuscia all’amarena ( infatti non posso ne per fatti oggettivi ne per legge definirla una kriek), per farla corta, ancora giovane ma già migliorata, a settembre al concorso “Birre sotto il Vesuvio 2007 “ la mia creatura si è piazzata ottava.

Dopo tutto questo posso affermare che anche da noi in ambienti mirati, nei giusti periodi e con la giusta attrezzatura si possono effettuare fermentazioni completamente spontanee, senza dover inoculare alcun lievito, certamente come molti pensano ci vuole anche “fortuna” (diciamo così), l’unico problema che ho notato in tutto questo procedimento è la difficoltà di invecchiare e far maturare la kriek, ma questo è dovuto principalmente alla sete dell’homebrewers che l’ha prodotta!

di Fabio Giovannoni presidente dell’Ass. Pinta Medicea

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