Le recenti statistiche sull’incessante crescita del numero delle craft breweries negli Usa (a fine 2016 si è superata la soglia delle 5mila) hanno fatto volgere l’attenzione anche sul confronto tra il presente, così rigoglioso per la birra a stelle e strisce, e un passato drammatico, non poi tanto remoto. Parliamo del proibizionismo, di cui, ogni 5 dicembre, si celebra, ovviamente a suon di brindisi, l’anniversario dell’abrogazione. Prima di questa scellerata normativa il panorama brassicolo statunitense contava circa 1.300 unità produttive e il livello dei consumi esprimeva indici tali da non essere raggiunti nuovamente se non a metà degli anni Settanta.
Ad avere la peggio furono soprattutto le attività medie e medio piccole, mentre i gruppi industriali di maggiori dimensioni e di natura multisettoriale ebbero altri canali cui trarre ossigeno onde evitare l’asfissia, e terminata la clausura trovarono davanti a sé un orizzonte sgombro da molti competitor. La ripresa, insomma, ci sarebbe stata durante tutti i decenni centrali del Novecento; questi, però, sarebbero passati alla storia come quelli della massificazione birraria. Ma come e perché venne a configurarsi il proibizionismo? Ecco, di quello cui spesso ci si riferisce utilizzando l’espressione de il periodo buio (the dark times) un inquadramento sintetico e un’altrettanto sintetica cronologia. L’arco cronologico è quello che va dal 1920 al 1933; l’elemento caratterizzante è l’applicazione di disposizioni in base alle quali si sanciva il bando sulla fabbricazione, sulla vendita, sull’importazione e sul trasporto di alcolici. Ma le tappe che conducono al suo avvento devono individuarsi ben a monte di quei tredici anni, per l’esattezza già prima della metà dell’Ottocento. Infatti è con il decennio aperto dal 1830 che si registra la comparsa e l’ascesa del Temperance movement (il Movimento per la temperanza), animato dall’intento di combattere il consumo di alcol; il quale, nel 1855, viene vietato per la prima volta in 13 Stati. Nel solco di quel percorso, il 1869 vede la costituzione del National Prohibition Party, un cui rappresentante debutta alla Camera nel 1890; mentre il 1893 registra la fondazione della Anti Saloon League, ancora più strutturata ed efficace nella sua azione di pressione, contro vino, birra e distillati. S’instaura insomma un clima socio-culturale che porterà il 28 ottobre 1919 all’approvazione del Volstead Act (legge Volstead, dal cognome del deputato che, nel 1917, ne aveva formulato la proposta, Andrew Volstead) o National Prohibition Act, con cui si spiana la strada al XVIII Emendamento, entrato in vigore il 16 gennaio 1920 segnando l’inizio ufficiale del Proibizionismo.
Gli obiettivi sono sanciti nello stesso Volstead Act: impedire l’assunzione di bevande inebrianti (intendendo con ciò le titolazioni etiliche superiori allo 0.5%); finalizzare la preparazione e la vendita di alcolici ad alta gradazione a fini diversi da quelli del piacere personale; garantire, di essi, un’ampia disponibilità a favore della ricerca scientifica, nonché dello sviluppo di carburanti, coloranti per tintura e altre industrie legali. Sul rispetto di tali regole – ispirate da principi che ritenevano il “bere” responsabile di malattie croniche, perdita del lavoro, maltrattamenti su mogli e figli, impoverimento e, in breve, alla diffusione di tante patologie sociali – vigilerà una “task force” di 1520 agenti federali; con l’effetto però che, dati i limiti ristrettissimi assunti dalla legge, la pressoché intera produzione di alcolici finì nelle mani della malavita organizzata, a boss quali Al Capone e gli altri di maggior spicco in quella fase.
E i produttori rispettosi della legge? Alcuni si rifugiarono in offerte alternative, denominate Near beer (quasi birre): la Pablo (della Pabst), la Famo (della Schlitz), la Vivo (della Miller), la Yuengling Special o Por Tor (della Yuengling), la Lux-O (a firma Stroh) e la Bevo (di Anheuser-Busch). Per loro, vacche magre; il vento sarebbe cambiato solo a partire dal 1932, grazie all’amministrazione di Franklin Delano Roosevelt e alle difficoltà drammatiche dovute alla Grande Depressione. L’opportunità di creare posti di lavoro e di incrementare le entrate erariali attraverso la tassazione di birre di nuovo legalizzate iniziò a minare il sentiment proibizionistico, inducendo il presidente, a firmare, il 22 marzo dell’anno successivo, il Cullen-Harrison Act, con il quale rientravano in regola quelle provviste di gradazione non superiore al 4%. Nell’apporre il proprio imprimatur, l’inquilino dello Studio Ovale pronunciò l’indimenticabile battuta: I think this would be a good time for a beer. La legge entrò in vigore il 7 aprile e la “sete arretrata” fece vaporizzare nel corso di quelle 24 ore oltre 1 milione e mezzo di barili (circa 1,8 milioni di ettolitri) di pinte, con file d’attesa alla porta di migliaia di pub durante tutto il giorno prima che venne battezzato New Beers Eve. Il 5 dicembre del 1933 si decretava formalmente la fine del Proibizionismo.